Introduzione
Eppure “un altro mondo è possibile” non può essere e non è solo uno slogan fine a se stesso, è qualcosa di più, di realizzabile e concreto. E’ una scelta di campo, una necessità interiore e molto pratica, contro le ingiustizie del mondo, a favore delle vittime dell’esclusione, per dare un senso compiuto al nostro breve esistere, altrimenti inutile. Numerose volte ho azzardato la ricerca, anche solo forzando il pensiero. E sono corso al modello confortante di un mondo diverso, in cui essere fieri di far nascere i propri figli: un mondo di giustizia e di pace, di uguaglianza e vera libertà. In fondo, se consideriamo la nostra realtà economica mondiale, siamo ancora al baratto delle merci, diamo tuttora “cose” per averne altre, beni o servizi. Se non le abbiamo siamo disposti anche a prendercele, gli uni contro gli altri armati. Chi l’ha però detto che debba essere l’oro – e ciò che rappresenta – a commisurare ricchezza ed a stabilire il destino, la felicità e la stessa vita dei singoli e dei popoli della Terra!? Non è detto che si debba poter “battere” moneta per quanto oro si possiede, né che il ricco, perché già ha avuto e troppo spesso “preso” molto, debba avere ancora di più, e per sempre. E che chi non ha “cose”, per il fatto stesso di non possederne, debba continuare a non averne. Mi rifiuto di pensare sia questo il Regno voluto nel Sogno di Dio e nemmeno qualcosa che gli somigli. Gli stessi seguaci di Cristo, nei secoli, partiti poveri di mezzi e ricchi di Spirito, hanno lungo la strada incontrato i poveri di spirito ma soprattutto i ricchi di denaro, di cui sono spesso diventati alleati ed in tante, eccessive realtà, perfino “soci”. E’ la Emmaus dei capitali e la perdita, cammin facendo, della fresca autenticità della missione originaria.
La Parola di Cristo come viatico, ma la struttura come risultato e mezzo, divenuto man mano ingombrante al punto da assurgere quasi a fine oggettivo. E da salvaguardare, e difendere. Alla “se così va il mondo” ….
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Da Città del Messico a Miami, ed oltre. Nonostante la bella giornata di sole e la prospettiva di un viaggio verso terre e genti nuove, è però difficile sentirsi a proprio agio con i piedi a qualche migliaio di metri dal suolo, anche a bordo di un efficiente e rassicurante velivolo dell’American Airlines. E la sensazione di incertezza aumenta in maniera perfino avvertibile se si è solo alla terza, ravvicinata, esperienza di volo e si è seduti, in una poltrona centrale del velivolo, avendo alla propria destra, braccio a braccio, una fresca e disinvolta rappresentazione carnosa della bellezza femminile sudamericana, della quale sono poste generosamente in evidenza le rosee caratteristiche di maggior fascino e, assiso alla propria sinistra, il carismatico ed autorevole Vescovo della propria diocesi di appartenenza. Strano destino, il mio, pensavo in quei momenti. E’ come se la vita ad un tratto ti ponesse, in maniera evidente, di fronte ad un bivio, ti spingesse quindi ad affrontare e scegliere la propria vera rotta, non guidata da sofisticati meccanismi elettronici ma retta e governata, più liberamente e consapevolmente, dal proprio singolo arbitrio. Non era più il tempo, se mai lo era stato realmente, di decisioni senz’anima o di valore coreografico. Bisognava davvero scegliere, seguendo infine l’onda del cuore, fuor di metafora. Mi sentivo d’un tratto spinto, giunto a freschi 40 anni, non consumati da degradi personali anticipati ma conservati e quasi custoditi in vista di impegni forti preconizzati, a staccare i piedi dal rassicurante sentiero fino ad allora percorso. Alzarsi e prendere il volo e scegliere infine la propria strada: a destra l’incanto della giovinezza prorompente, la promessa di seducenti momenti di vita frenetica e convulsa, la suggestione di piacevoli incanti, al di là dello specifico soggetto, con la prospettiva di poter rafforzare giovanili entusiasmi non trascorsi per quanto fugaci e caduchi, ed a sinistra lo sguardo sul profondo del nostro essere, sul divenire della nostra esistenza, sul progredire della conoscenza di noi stessi e della nostra dimensione più autentica e vera. Quasi una scelta tra la scorciatoia dell’avere, ancora e di più, e la salita impegnativa dell’essere. E bisognava decidere, e farlo adesso. Ho tracimato gli indugi e mi sono voltato senza rimpianti a sinistra, ed ho sciolto così l’imbarazzo, sentendomi da subito rafforzato nel mio pur faticoso procedere. Ed è vero, pensavo, quanto scrissi un tempo, vent’anni prima, in una calda estate di fine agosto mentre, coricato quieto su un complice lettino, miravo compiaciuto e curioso la fitta pineta estense immergersi, tra piacevoli brezze, nelle calde acque dei lidi ferraresi. E pensavo al mio incedere, ed al domani. D’impulso annotavo: “Seguii sull’eco del vento il soffio senza senso e l’origine del suono, trovai un senso al rumore…. Non è sfuggito al controllo e forse non è neppure uscito di senno, sta seguendo il ritmo, si adegua alla lotta. Ora è la voce che mi dà il via. Io non cerco scuse, voglio ragioni, …. i motivi. Forse il vero inizio è nella fine, la vera gioia è nel dolore, la vera vita nella morte, il senso nell’apparente controsenso. In me c’è tutto, perché non ho nulla. Cosa sono i ricordi? Un luogo, un numero, un volto od una sensazione, …. più che altro un sentimento!? Domande dell’animo, quesiti a cui ho già risposto ma che non ho soddisfatto, dialoghi assurdi di una mente impossibile, questo forse …” Già allora, di fatto, intendevo prefigurare, sia pure in maniera nemmeno a me ancora manifesta, quello che avvertivo dover essere un inno all’Uomo, ad un uomo libero, forte della coscienza della propria imperfetta natura ma anche delle proprie indubbie capacità, contratto dall’ambiente clientelare circostante, da una società formalista e perbenista, attratta e convulsa attorno alla centralità del dogma del denaro e del successo, composta da persone comuni e per lo più cieche e permeate da pragmatismo egoista. Finge una sua normalità, per non essere isolato e considerato diverso, ma dovrà scegliere infine mostrarsi per quel che è realmente, perché non potrà mai essere come gli altri. Quell’estate, mi accorgo, ne intuii già la ragione: “Perché la verità è evidenza e la si può perfino ignorare, anche a lungo, ma mai negare”. Così, pensai, vale anche per gli animali e ricordai i miei gatti: il soriano avuto durante l’infanzia e lo splendido esemplare di norvegese delle foreste, dalla coda folta e spessa, che trascorse con noi, facendoci compagnia e divertendoci, gli ultimi anni. Apparso all’improvviso, piccolo ed indifeso, trovò accoglienza, aiuto, possibilità di vivere e crescere – lo svezzammo col biberon – ma restò fondamentalmente libero e fiero di esserlo. Ed un mattino, non rientrò più a casa. Lo pensiamo padrone della notte e delle sue scelte, finalmente se stesso. Anch’io, in questo viaggio, mi sento libero e fiero di esserlo, al servizio della mia vicenda personale, ad iniziare quella che, finalmente, potrebbe diventare la mia vera missione. Vengo da terre surriscaldate e grasse, dove il tasso di progresso raggiunto lo si misura dal numero degli spots televisivi per ora di programma e dalla crescita dell’inquinamento ambientale e la felicità dei singoli è proporzionale al look, al trend e soprattutto allo specifico del proprio conto corrente. Cresciuti a snack e cartoni, sappiamo che non siamo l’America cinematografica, ma la più pragmatica e crassa Italia dei figli dabbene della stordita borghesia corrente. E con l’amico Vescovo, – dando all’amicizia la sua accezione più nobile e vera – alla sua domanda sul come mi trovavo nel quotidiano locale – leader d’area e vero centro di potere istituzionale provinciale, nato alla fine del secondo conflitto mondiale sull’affermazione di forza di principi condivisi, ma divenuto negli anni un carrozzone informe di solidi patrimoni redditivi, ormai ridotto perlopiù a spento garante della continuità dell’esistente – avvertii la precisa chiamata a dare testimonianza della verità ed al contempo la difficoltà di rendere situazioni, persone, rapporti e conformismi di una quotidianità svilita, nello spazio ristretto di un pur franco e convinto colloquio. Ben oltre le situazioni specifiche, in tali frangenti si avverte consapevolmente quanto sia oggi relativizzato il nostro modo di pensare, e quindi di essere. Non è più limitata l’analisi, la preoccupazione che la precede e l’ansia che inevitabilmente l’accompagna, al vivo disagio per un mondo nato da un universo di valori e divenuto nel tempo, nonostante la proprietà sia la stessa, un universo economico senza più valori alti. Si è infine creato un soggetto composito, riconoscibile anche a livello nazionale e che sta pure avanzando, implacabile, in ambito mondiale, la cui connotazione è data dall’assenza di contenuti e presupposti di pregio, ma dalla densità del peso specifico economico. Conta produrre, vendere, diffondere, servono bilanci in utile, aziende che rendono, profitti agli azionisti. La logica condivisa nel regno d’affari è “dobbiamo guadagnare tutti”, intendendosi compresi i soli attori del proscenio che conta: il dio mercato. Ed è così che la politica ha perso il suo valore, le ideologie sono morte e con esse la capacità di progredire sulla spinta di idealità alte. A chi detiene le leve del potere economico non interessa nemmeno più chi governa, perché l’economia non è conseguenza e frutto di politiche illuminate ma è piuttosto quest’ultima al servizio del predominio economico. Non conta chi vince le elezioni, a vincere – e comandare – è sempre chi detiene i pacchetti di controllo e con essi il potere sociale reale. E per detenere il potere reale – vero valore condiviso – si è pronti a dare ospitalità e spazio a quanti crescono nel consenso comune, riuscendo in tal modo a sopravvivere e mantenere il predominio anche nei contesti sociali e politici più diversi, anche di fronte a sconvolgimenti sociali solo apparenti, pronti a “fare affari” con l’interlocutore di turno, mai cedendo, però, il controllo finanziario e non lasciando spazi di vera democrazia – non parliamo di impossibile alternanza – che non siano sostanzialmente e fermamente controllati. Eppure questo è il mondo della civiltà cristiana occidentale come è oggi manifestata, che intende essere riconosciuto come portatore di valori cristiani autentici, baluardo di conoscenze e depositario di certezze, a salvaguardia del mondo e delle coscienze. Ha rinunciato a cambiare il mondo e si adegua al mercato, ritenendolo fatto imprescindibile. I conti, devono tornare. Eppure agire, parlare e scrivere con franchezza di ciò che accade, senza superbia o saccenza, convinti innanzitutto dei propri limiti, ma forti delle ragioni della Verità non è un lusso scomodo od un’inutile follia, è piuttosto cercare di essere discepoli di quel Cristo sconfitto ma non vinto che ha fatto della Croce la leva con cui cambiare realmente il mondo, che ha seminato a partire da se stesso e sta nascostamente fiorendo, troppe volte nei cuori di chi non professa di conoscerlo e servirlo, ma ne deriva correttamente lo Spirito di Verità e Giustizia. Continuerò, per quel che serve la mia povera azione e seguirò la mia missione, fin dove dovrà essere. Ricordo e mi confortano le parole del Cristo al suo autentico apostolo, quel Paolo che l’ha prima combattuto e poi conosciutolo davvero l’ha servito come Lui chiede di essere condiviso: “Non temere, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te”.
Ma il mondo, per la maggior parte, non è il nostro di mondo e ci guarda e ci interroga, pronto ad inondarci non tanto con le inevitabili derive di persone costrette a cercare altrove salvezza ma pronto a sommergerci col suo sangue innocente ed a turbare davvero la nostra piatta normalità. Ha ragione l’amico Alex Zanotelli, profeta vero del “nuovo mondo” e testimone scomodo di una società e della sua Chiesa che lo hanno spinto tra i rifiuti ed i rifiutati di una bidonville infernale alla periferia di Nairobi: Korogocho, nella quale ha vissuto a lungo. Ed anziché scomparire fisicamente ed essere cancellato per sempre dall’orizzonte delle nostre coscienze, è stato capace di risorgere e gridare ancora una volta, forte, autorevole, soprattutto credibile, da quelli che lui giustamente definisce “i sotterranei della storia”, là tra i “crocifissi viventi”. E’ un contemporaneo Giovanni il Battista che prepara e raddrizza i sentieri di una cristianità imperfetta, spingendola ad inquietarsi e riflettere, a specchiarsi soprattutto nei volti dei Cristi di cui il Sud del mondo, ambito esistenziale e non necessariamente geografico, è pieno. “La lunga notte oscura delle miserie dell’uomo, delle vittime del sistema, delle ingiustizie dei forti, continua, mentre il sangue della vita scorre lungo il cammino, lavando e purificando, le indecenze di tutti”. Eppure molti cosiddetti benpensanti ci vogliono rassicurare: in fondo abbiamo ciò che ci siamo meritati e guadagnati, i sacrifici di chi ci ha preceduto ci pongono in posizione vantaggiosa e tale da consentirci di vivere meglio e più a lungo, possibilmente senza il fastidio di ingombranti e scomode presenze delle avanguardie delle “eccedenze”: quei quattro quinti della popolazione della Terra che non producono, risparmiano, investono e tantomeno consumano…. A noi il compito di presidiare quanto raggiunto e perpetuarlo per il futuro, senza regole che non siano quelle dei nostri interessi da difendere e che derivino dal mercato, vera giungla senza equilibri naturali dove il più forte vince sempre, a scapito del più debole.
Sono concetti che spesso sono supportati da dotte assertazioni di acculturati “sacerdoti” – non necessariamente consacrati – della Chiesa di sola “struttura” e perfino enunciati a stanche e vecchie platee di assopiti fedeli. Ciò nondimeno turba, avvilisce ed indigna sentire il direttore del quotidiano dei vescovi italiani dire pubblicamente che il compito dei cristiani – e quindi del giornale da lui diretto, che ambisce ad esserne portavoce e guida – è quello di essere “altro” rispetto al mondo ed a ciò che vi accade, non schierandosi con le ragioni che si contrappongono, ma ponendosi su di un piano diverso di lettura dei fatti e delle realtà contingenti. Di fatto professa e legittima la logica di supremazia dall’alto del potere reale predominante, a salvaguardia dell’esistente. Chissà se possiamo riconoscergli l’attenuante, comunque certo non gratificante, di non rendersene nemmeno conto. Qualcuno, con la semplicità e la chiarezza dei semplici – ma acuti – e dei fanciulli, dovrà pur dire loro che “il re è nudo”, i vestiti che crede di indossare non esistono e mostra invece tutte le sue vere umane povertà.
Ed allo stesso tempo potrà mostrare i “limiti” – tali per le loro calibrate coscienze – di un Dio che è anche “uomo di parte”, ha scelto di schierarsi, si è sporcato le mani, fino a sanguinare e morirne! Nel mondo quindi, e pienamente, pur senza avere di questo mondo le vedute finite ed i biechi egoismi e senza farsi strumentalizzare “marciando” al ritmo dei registi dei poteri occulti e delle lobby, magari sotto bandiere che appartengono ad ideologie di genere e mercificazioni umane. Questo il vero ruolo dei cristiani oggi!
E di cammini di giustizia da percorrere convinti con sollecitudine e premura è davvero pieno il mondo, altro che cristianesimo già realizzato nelle strutture economiche esistenti e che necessita solo di fedeli custodi e perpetuatori! Quel cristianesimo è lettera morta e delle tante pietre che lo compongono non una resterà salda al suo posto! Non c’è futuro per il Dio dei morti! Ricordiamo il Cristo, mite ed umile di cuore, cosa ha fatto dei mercanti del tempio! Ricordo la mia scelta di campo, già incisa nel cuore dall’Eterno ma che ho riconosciuto nell’incontrare i bivi della vita, dovendo necessariamente scegliere. “Dacci la forza, per onorare la vita, resistendo al tempo, rinunciando al visto, credendo al nuovo” ho inciso nella mia prima raccolta di poesie. In corsivo, ogni tanto leggi, amico e compagno di viaggio, stralci di mie liriche, a sottolineare con la forza universale ed eterna della composizione poetica i passaggi del procedere e del mio, nostro, lento progredire. Scrivo per te, che magari non mi conosci, almeno non nella quotidianità importante ma che è anche tempo dell’ordinario, e che pertanto puoi conoscermi meglio, leggendomi e condividendo il nostro intimo essere. Scrivo infatti per i frequentatori di sogni, i guerrieri indomiti della Luce, i senza voce, coloro che hanno perso la parola, i deboli, i colpevoli, noi tutti peccatori. Mi rivolgo all’uomo, figlio di ogni tempo, schiavo della propria natura ma capace di alzarsi e volare alto, più alto di ogni materia, oltre i limiti della fisica e delle nostre debolezze. E scendo, da quell’aereo preso a Miami, per iniziare da Caracas e continuare con te, se lo vorrai, finché ne avremo entrambi la forza.
“Lascia la pace, la normalità, la via comune. Nel nome del sogno, fa che stavolta, diventi realtà”. C’è un limite, alla nostra azione, che non è legato alle nostre incapacità e non è detto che trovi spiegazione esauriente nella collocazione non temporale del nostro Dio, padrone del tempo oltre che Signore della storia, è piuttosto il nostro stesso limite fisiologico. Ogni uomo si sente inevitabilmente nuovo padrone di sé e del tempo nel quale è collocato e trascorre la propria dimensione terrena impegnato nella fatica del crescere, nel voler ignorare le precedenti lezioni di vita, pure caramente pagate e vuole farne di proprie, ricominciando di fatto ogni volta da zero, preso dalle occupazioni umane, disperso nella necessità del riposo, nell’assolvimento dei bisogni primari e spesso voluttuari e perfino indotti e necessita di tempo, troppo tempo, per capire chi egli sia realmente, quale compito lo attenda davvero, cosa farne in definitiva della propria stessa vita. Quando comincia a realizzare il significato profondo del circostante, a cogliere la sua dimensione sociale e ad accorgersi che ha fino ad allora corso inseguendo soprattutto ombre e miraggi, senza mai raggiungere progressi reali, è troppo spesso tardi. Il tempo è finito ed un altro finto protagonista del presente è pronto a prenderne il posto. Così unici, irripetibili, speciali siamo spesso altrettanto ovvi, scontati, ripetitivi nella banalità del consumarsi. E ricordo quel giovane atipico, un po’ misterioso, un angelo custode incontrato lungo il cammino, non è chiaro come.
“Vorrei incontrarti un giorno e poterti dare tutto quello che ho in me e che non posso offrirti”. Difficile incontrare un amico, troppe volte ci affiancano solo accompagnatori: di comodo, di divertimento, di interesse, di affari, di colpe le più diverse. Uniti a noi per il tragitto che ci porta a raggiungere il comune soddisfacimento di reciproci bisogni, incontri senza respiro, dal fiato corto. Cristian no. Gli occhi azzurri, profondi e senza ombre, i capelli e la barba castano chiari, da iconografia classica del Nazzareno, e quel suo procedere convinto ma umile, sereno e forte, sicuro delle certezze di una fede praticata nella quotidianità, non esibita ma nemmeno nascosta, un discepolo presente. E’ pensando a lui ed a persone che gli somigliano, con le quali mettersi a camminare seguendo le orme del Maestro, che ho pensato ai “Servitori della Pace e Comunicatori di Giustizia”. Ed ho trovato un amico, apostolo fin dal nome, un inviato che mi ha raggiunto per lungo tempo, come per ispirazione o mandato non importa da chi, nei momenti del disagio e della difficoltà. Puntuale come solo la risposta del Signore sa essere. Ci sono quindi anch’io, senza dubbi, a pronunciare il mio “eccomi”.
E ci troviamo uniti, nel confrontarci con la realtà delle cose del mondo, il potere di chi lo sta rappresentando, la asserita irreprensibilità e forza morale di istituzioni e persone che ne sono espressione, la quieta comodità del vivere senza domande ed inquietanti perplessità. Siamo perdenti, umanamente sconfitti. Ma guardiamo più avanti: “Facci scrivere, pagine bianche, in libri mai letti”. Sappiamo guardare con umana follia ai nostri insuccessi, considerandoli grazie sul nostro procedere, prove e dimostrazioni di strade percorse nella direzione corretta, di cammini controcorrente, in chiave profetica. Nei momenti in cui issiamo reti vuote e la fatica si fa sentire ricordiamo la testimonianza di un uomo semplice ma profondo che nella sua vita, ogni volta che aveva tempo, cercava un posto dove piantare un albero ed anno dopo anno, senza che il mondo se ne accorgesse, ha così modificato il paesaggio a lui circostante, facendolo “crescere” e dandogli vita e futuro.
Siamo quindi inevitabilmente parte di quella frangia pericolosa ed inquieta della società – secondo un certo sentire moderato benpensante – formata da idealisti, sognatori, anime insoddisfatte, malati psichici, soggetti “non normalizzati” che rappresentano una minaccia per la quiete pubblica e vivono con incomprensibile disagio i sani equilibri sociali raggiunti dalla cultura dominante, espressa da gente dabbene arricchita ed arida che ha una religione benedicente, che essa stessa predica giustizia ma pratica al contempo finanza.
E se ci rifacciamo agli insegnamenti del Vangelo, con struggente malinconia, ed al fortificante esempio delle prime comunità cristiane, corriamo il rischio di essere definiti stolti o, con un termine inadatto, quasi dei “rivoluzionari”.
Cristo non ha appiattito gli uomini in ideologie di pianificato ed indiscriminato universalismo classista, senza anima e futuro, ma chiede di riconoscerci e vivere da fratelli, figli dello stesso Padre, con sollecitudine e premura gli uni verso gli altri, condividendo bisogni e pari opportunità, facendo dei beni della terra un patrimonio comune dell’umanità, come nel disegno di Dio.
E sapendo resistere, per arrivarci, nonostante tutto.
“Noi, mai vinti, in vetta al presente, in memoria degli oltraggiati, gridiamo indignati, e non avremo pace, né loro con noi, fino alla fine, oltre il tempo. E sarà giustizia”.
Prendi il largo. E getta di nuovo le reti. Non può che essere questo il compito che ci attende e che il mondo richiede. Serve inoltre uno spirito nuovo e vivo, capacità di gesti coraggiosi e profetici, la forza che viene dalla libertà dai condizionamenti materiali, la capacità di tornare alla Montagna, a dare fiato al Manifesto di Cristo, al proclama del Sogno di un mondo nuovo, al suo testamento spirituale. Ha voluto una Chiesa povera e si è rivolto alle povertà del mondo. A chi ha già molto ha chiesto di liberarsi dal peso dell’eccessiva ricchezza e di farsi suo seguace, percorrendo le vie del Signore, vie di giustizia e di pace. Non si tratta, come predicano i seguaci del cristianesimo-struttura, di dare alle parole un senso non letterale, di scelta perfetta che però non esclude ed anzi consente vie imperfette di adesione, di povertà spirituali più che materiali, di utopie cristiane.
“Se non sarete come bambini non entrerete nel Regno dei Cieli”, ci ammonisce il Maestro.
La Sua Parola è Legge, vive in Eterno, è fonte di Via, Verità e Vita. Ci invita a cibarci di Lui e viverlo profondamente così da saperlo seguire con fiducia ed abbandono. Ed ha parlato per essere ascoltato, non interpretato secondo le convenienze del mondo. Non ha voluto con sé beni, né preoccupazioni temporali, ci invita a vivere della quotidianità degli incontri, incontro ai fratelli, cercando ciò che ci serve per vivere, che ci verrà dato in sovrappiù. Per prima proprio la sua Chiesa. Ho un altro vero amico, un Vescovo comboniano, un Maestro di fede ed un testimone coraggioso ed audace, franco – anche di nome – e vero, un apostolo dei primi giorni, un testimone scomodo della sconvolgente novità del Vangelo, della sua forza autenticamente rivoluzionaria. E’ stato ucciso in un incidente stradale dalle dubbie circostanze. Operava nel Nord-est del Brasile ed è stato a lungo Presidente del Cimi, il Consiglio indigenista missionario, che si batte per il riconoscimento e la salvaguardia delle decimate popolazioni indios. “Li ho visti persi , nei ghetti del mondo, nelle periferie della storia, umanamente sconfitti, senza certezze e senza un futuro”.
Franco Masserdotti è stato un Pastore vero, carismatico, illuminato dall’incontro con Cristo e dalla conoscenza della miseria umana vera e delle sua diverse cause. Con affetto e pari autorevolezza mi ha sostenuto ed incoraggiato, lui, che avrei voluto essere io ad aiutare ben più di quanto non mi sia riuscito e che tuttora mi commuove e fortifica, avendomi chiamato “amico e fratello”, anch’io “missionario nel mondo delle comunicazioni sociali”. Ne sono davvero indegno, ma so di dover moltiplicare gli sforzi per progredire nella comune direzione. “Alessandro, quello che tu vivi e incontri, per cui soffri, è presente a molti livelli e riguarda la Chiesa in generale, serve l’aiuto dello Spirito, ne abbiamo bisogno tutti – mi ha detto in un’ultima telefonata, aggiungendo – è per questo che con altri Vescovi mi sto facendo promotore e firmatario di una richiesta ufficiale al Papa, per chiedere che venga indetto un Concilio Ecumenico Vaticano. E’ una necessità di unità e riconciliazione cristiana”.
Se serve, padre Franco, io resto. Nonostante tutto.
“La scelta è compiuta , e non l’ho fatta io, non da solo. Hai scelto Tu, hai scelto loro, ci sono anch’io”.
“Ed io resto, se vuoi, su questa barca, coi tuoi figli alla deriva. Il vento sei Tu”.
E’ la stessa barca sulla quale è morto don Riccardo Benedetti, sacerdote bresciano missionario in Venezuela, parroco di Tumeremo – nella diocesi di Ciudad Guayana – in un impeto irrefrenabile di generosità, in un moto indeflettibile di giustizia spinta alle estreme conseguenze, di vita vissuta nella solidarietà fino a farne dono pieno, di segno eucaristico. Si è fatto infatti “mangiare” insieme ai suoi indios più indifesi da un destino atroce, dal guasto improvviso ed irreparabile dei motori della grande canoa con la quale percorreva uno spumeggiante rio della maestosa e rigogliosa Gran Sabana, nei pressi del salto mozzafiato di El Aponwao, di oltre cento metri di altezza. Poteva salvarsi, era un buon nuotatore, non avrebbe faticato a raggiungere la riva insieme agli altri adulti che, resisi conto del pericolo, hanno abbandonato in fretta l’imbarcazione, ma avrebbe lasciato soli i numerosi piccoli e le loro madri. “Resto con loro nella barca!”, sono state le sue ultime parole, gridate a chi lo invitava a saltare in acqua prima che fosse troppo tardi, prima di quell’incredibile cascata terrificante, una vera parete verticale di massi di rocce spigolose sulla quale si infrangono fragorosamente, senza interruzione, alte e travolgenti cascate d’acqua turbinosa. Non poteva esserci scampo, ne erano certo ben consci. Non si è salvato infatti nessuno, sono morti in quattordici e per ricomporre don Riccardo le squadre di soccorso hanno dovuto faticare parecchio e lui, grande uomo davvero, è stato alla fine riposto in una piccola cassettina di legno, ormai sufficiente a contenerne i brandelli. Bianca, il colore di chi si presenta “pulito” e vestito a festa, e con le maniglie color oro, quello stesso metallo che, abbondante nelle miniere vicino a Tumeremo, dà pochi soldi di paga alla gente del posto, dopo fatiche estenuanti per estrarlo, e viene tutto esportato, proprietà com’è di grossi gruppi stranieri. “Sconfitti, ma non vinti. Spirito di giustizia, e di verità, che soffi sui morti viventi, sui dimenticati e gli afflitti, sugli ignavi ed i dispersi, sui figli del consumo e quelli della Luce ed inondi di pace chi lotta nel tuo nome, spesso solo, sempre inutile, ma comunque in azione.”
“Avrei dovuto esserci anch’io, quel giorno con Riccardo – mi ha sussurrato con viva nostalgia dell’amico ed anche del non essergli stato vicino, don Adriano Salvadori, bresciano anche lui, impegnato nella stessa azione pastorale di evangelizzazione e promozione umana in un territorio enorme, di selvaggia bellezza, nello stato di Bolivar, in cui convivono a fatica i figli dei “conquistatori” e le diverse etnie indios, un tempo padrone indisturbate di quelle terre. Ora sono confinati, ridotti in condizioni di estrema indigenza, osteggiati quando non addirittura violentemente combattuti. Del resto gli indios non esistono, non per l’anagrafe ufficiale almeno. Privi di identità, diritti politici e civili, sono parte viva di quelle “eccedenze” fastidiose di cui è sempre più pieno il mondo. Vivono ancora in capanne od in modeste abitazioni di legno, facendo gruppo a sé, lontani dai paesi e dalle città. Non sono infatti graditi ed entrano di rado nei villaggi, solo se spinti dalla necessità. Don Adriano ha vissuto fino alla fine in mezzo a loro, si è costruito una casa con le stesse tecniche costruttive e gli identici materiali e, come loro, saliva al secondo piano, dove sono le camere, a piedi nudi, nel rispetto di un rito ancestrale. Ormai, non più stupito ma soddisfatto, ci mostrava i terreni circostanti e ci spiegava che sono di tutto il villaggio. La proprietà privata, là, non esiste. La casa la usa il nucleo familiare, quello sì, ma se il singolo intende coltivare o mettere a dimora una pianta decide con libertà dove farlo, non ci sono “barriere”. E così di fronte alla casa di don Riccardo ci sono alberi piantati da altri e lui stesso ne ha alcuni interrati di fronte ad altre dimore. Come del resto avviene per la caccia ed i prodotti della terra. A ciascuno va secondo il bisogno e non vi sono esclusi. Per certi aspetti è per gli indios più normale sentire parlare di un Dio che ci considera tutti uguali, suoi figli, non fa preferenze, ha creato il mondo per noi, senza distinzioni, e che la terra e quanto contiene è di tutti. Inevitabile e necessario spendersi per loro, sono la prima tra le tante urgenze del luogo, i più disperati, i senza voce, i privi di dignità, senza presente ed ancor meno futuro, nonostante un glorioso passato e ricche tradizioni ed una suggestiva cultura. Altrettanto ovvio suscitare rancori, rabbia, subire intimidazioni, violenze, minacce di morte, per il solo fatto di interessarsene, di difenderne i diritti, di non rinunciare a considerarli esseri umani, di volerli tali. Ma di questo né don Riccardo e nemmeno don Adriano se ne preoccupavano. Sono scelte di vita, le loro, come quella di chi riesce a dare tutto se stesso per una causa nobile e che valga la pena essere perseguita senza riserve e titubanze, costi quel che costi. E’ la causa stessa della vita e del suo predominio sul peccato e la morte, l’agire per l’edificazione del bene e la costruzione del Regno, di un mondo nuovo. Perché, sì, un mondo diverso è possibile, basta volerlo. E per gli indios delle etnie Pemon e Karina, per quanto possono veri angeli custodi dell’integrità della Gran Sabana, don Adriano non è morto nella cascata ma è stato voluto dal Dio della natura, padrone della vita. Egli infatti, secondo la loro reigiosità, vuole con sé le persone migliori, più buone e generose e se ne “alimenta” facendo in modo che diano così frutti più abbondanti di grazie, che il loro potere aumenti, divinizzandoli, rendendoli immortali.
“Credere sempre, nella forza infinita della vita, credere contro le apparenze, e la presunzione arrogante, di chi fa della propria ragione e delle sue false, fugaci certezze, un’egida corrotta, per una vita in sfacelo.
In piedi, fino all’alba, di un giorno nuovo”.
Le cifre della vergogna, le ragioni dello scandalo. Non sono numeri aridi, ma piuttosto intrisi di sangue, pianto e desolazione, quelli dell’ingiustizia. Cifre apocalittiche, che racchiudono in estrema sintesi drammi di dimensioni planetarie, sconvolgenti e purtroppo in gran parte consueti ed acquisiti genocidi continuati. 14 milioni di morti per fame all’anno, di cui oltre la metà bambini fino ai sei anni di età, circa un miliardo e mezzo di persone che vivono nel mondo con meno di un dollaro – euro al giorno, i paesi in via di sviluppo stretti dalla morsa infernale, storicamente ingiusta ed ampiamente ripagata di un debito estero, nei confronti dei paesi più ricchi, che ne impedisce alcun sviluppo e che non è mai ripagato, dato il carico iniquo e perverso di interessi usurai. Ed in quei paesi, in cui vivono l’80% degli abitanti del pianeta, si deve vivere col 20% delle ricchezze disponibili, dato che il restante 20% del mondo ricco, costituito essenzialmente dall’Europa e dagli Stati Uniti consuma i quattro quinti di quanto esistente. E’ stato recentemente calcolato dall’università di Wupperthal, in Germania, che una famiglia del Nord del mondo, composta da quattro individui, “consuma” mediamente quanto circa sessanta persone dei paesi poveri! Le quali, in quanto abitanti del Sud del mondo, hanno un’aspettativa media di vita inferiore ai 50 anni, vivono in realtà di grave ed esteso analfabetismo, prive di sistemi sanitari adeguati e spesso della stessa acqua potabile! Quattro cittadini americani – di nome Bill Gates, Paul Allen, Warren Buffet e Larry Ellison – possiedono da soli una fortuna equivalente al prodotto interno di ben 42 paesi poveri con oltre 600 milioni di abitanti. Limitandosi anche al solo Brasile, ed alle realtà da noi visitate, basti pensare al dramma di due terzi della popolazione che è costretta a vivere con meno di 35 euro al mese, non sufficienti nemmeno per garantirsi il cibo. E se servisse un antibiotico, impossibile acquistarlo, dato che le medicine sono a pagamento. Ed una confezione costa mediamente oltre 70 euro. Ovunque in Brasile la terra è concentrata in mano a pochi fazendeiros, proprietari ciascuno di enormi appezzamenti di terreno, vasti anche centinaia di chilometri quadrati e con migliaia di animali in allevamento, mentre milioni di famiglie sono “sem terra” e non hanno la possibilità nemmeno di contare su un’area modesta in cui praticare una necessaria economia di sussistenza. Nel solo stato di Campo Grande, ad esempio, vi sono due milioni di abitanti la maggior parte dei quali vive nella miseria e nella fame, benché abbiano teoricamente a disposizione venti capi di bestiame a testa. I pochi ricchi proprietari risiedenti possiedono infatti oltre quaranta milioni di bovini, a loro esclusiva disposizione, destinati principalmente all’esportazione, come i prodotti coltivati nelle “loro” terre.
La concentrazione delle ricchezze in mano a pochi è il punto centrale dell’ingiustizia economica vigente: per tutelare gli interessi di pochi si sacrificano i più, con una logica certamente disumana ed assolutamente non cristiana. Per gli indios la terra è più che fonte di sostentamento: essa è innanzitutto madre, spazio di cultura, di relazioni sociali essenziali, di rapporto con l’Assoluto. Perdere la terra è per loro perdere anche l’identità e la stessa dignità di persone. Sono queste le ragioni – mi confermava l’amico Vescovo Franco Masserdotti – per cui vi è un moltiplicarsi dei casi di suicidio tra i giovani indios. La schiavitù economica non è però solo frutto della politica, garantita a livello planetario, praticata dalle multinazionali, che già ora controllano il 90% del commercio mondiale, o dalla finanza senza risvolti occupazionali e sociali, dato che circa il 99% dei movimenti finanziari di un giorno sono di carattere esclusivamente speculativo e di borsa. Un mondo virtuale, dove lo spostamento di masse di denaro ci si attende crei altro denaro di per se stesso, mentre i poveri restano, là dove sono, inchiodati nello svilimento, a morire in silenzio. Quello stesso silenzio che il Nord del mondo impone ai paesi dell’esclusione con l’annichilante potenza dei suoi mezzi d’informazione. Un potere, quello mediatico, che aggiunto al potere economico, a quello militare e a tentativi ancora presenti di colonizzazione religiosa deviata, fanno dei “poveri cristi” un obiettivo da raggiungere e stravolgere, a nostro uso e “consumo”. Le maggiori agenzie informative mondiali sono tutte in mano a Stati Uniti e paesi europei, ai paesi più poveri, anche in questo caso, restano le briciole. Un sussurro in una bolgia da stadio: impossibile distinguerlo, nemmeno sentirlo. Siamo davvero grati agli sforzi dell’agenzia informativa missionaria Misna (www.misna.org) a lungo diretta con passione e competenza dal comboniano Giulio Albanese, per quanto fa per “dare voce a chi non l’ha”. I privilegiati del mondo, gli arricchiti della terra, fanno infatti le notizie, stabiliscono le regole – controllano l’Onu, la Banca Mondiale, il WTO, le Borse, i mari, i cieli, perfino lo spazio con le reti satellitari – dividono il mondo in buoni e cattivi, in amici e nemici, in alleati e “paesi canaglia”. Sono loro la rappresentazione del bene, e chi non “collabora” è nemico da abbattere. Siamo all’inizio del terzo millennio, ma per oltre quattro miliardi di esseri umani una vita dignitosa è sempre più un miraggio e la civiltà, la nostra civiltà, una conquista da loro pagata duramente, con la sottrazione delle ricchezze naturali, la schiavitù, le deportazioni, il colonialismo e la perdita della propria identità. “Noi, in vetta al tempo, lanciamo oltre lo sguardo, sfidiamo il potere di chi l’ha avuto con l’inganno e la forza. Troppi padri hanno rubato e calpestato, usato violenza, soffocato anime, chiesto lacrime e sangue, ed ora i figli, retti proprietari e ricchi pagani, vivono credendosi, imponendo regole, salvando il sistema, loro, che non sono nulla”.
La via obbligata della resistenza e della speranza. Difficile pensare a percorsi alternativi, che abbiano efficacia, che siano capaci di novità, che siano seri e credibili, perfino doverosi. Da noi, anche solo alle latitudini bresciane, di quella che gli amici dei movimenti critici di base conoscono come la provincia più armata d’Italia, la via della novità cristiana deve scorrere “saggiamente imbrigliata” in ambiti istituzionali. Ecco che le realtà ufficiali si raccordano tutte tra loro, superando differenze e diversità, coagulate attorno ad un comune denominatore di impressionante potenza: l’occupazione, detenzione e spartizione del potere e dell’economia. E controllano tutto, ogni spazio “vitale” è presidiato: la scuola – in maniera diretta od indiretta -, i mass-media, le istituzioni politiche e sociali, le banche principali, con forti presenze nei sindacati, nel mondo politico di diverso “colore”, perfino nel terzo settore. Ed hanno una lobby ramificata e potente dentro la stessa curia. E’ quel fumo di Satana che, allargando lo sguardo, ammorba perfino il Vaticano e di cui hanno parlato gli stessi pontefici, dato che il potere sulle realtà economiche, finanziarie, istituzionali e politiche appartiene ad una ristretta élite di pretesi illuminati e massoni e giunge fino a Roma. Se poi consideriamo quanto vivono i Vescovi del Sud del mondo, sappiamo che la stessa carità praticata dalle loro fondazioni ed enti di cooperazione internazionale, di cui vanno orgogliosamente fieri, consiste in realtà, principalmente, in progetti realizzati di solito con approccio colonialista, senza attenzione alle priorità ed alle esigenze effettive dei luoghi nei quali vengono realizzati, ma badando soprattutto di ottenerli col concorso dell’Unione europea ed in parte dei governi locali. E’ così che questa parte di chiesa, formata da laici ma anche da sacerdoti-manager d’affari loro interlocutori privilegiati, – che in alcuni casi hanno trovato nella via temporanea della missione la scorciatoia per brillanti carriere ecclesiastiche, là certo più facili e celeri, ottenute anche costruendo, come è successo, strutture senza senso, vere “cattedrali nel deserto”, capaci di dare lustro e risalto a chi se ne è fatto promotore e costate milioni di euro. Beneficenza! La stessa che i cattolici di facciata praticano, a loro discrezione e sovente con interessati risvolti volti a suscitare impegnativa gratitudine, con parte degli utili dei bilanci della tante imprese da loro gestite senza remore ed al pari di qualsiasi altro imprenditore “aconfessionale”. Magari in maniera lenta ed impacciata nella macchinosa fase decisionale accentrata e verticistica, preoccupati però di fare affari e competere nel mercato, senza differenziarsi, anzi agendo con logiche commerciali asfissianti le altrui, più deboli, iniziative. E sostenendosi vicendevolmente in un rapporto stretto di interessati scambi, basati spesso su reciproca inefficienza, qualità inferiore al mercato – per prestazioni e prodotti – ma resi comunque possibili dall’imponenza delle risorse finanziarie disponibili, tali da consentire di acquisire i rivali di settore di turno, abitualmente più validi e competitivi, ma sfortunatamente meno “ricchi”. Anche all’interno delle loro realtà aziendali il cristianesimo è lettera morta: nei dirigenti, che spesso non sono dichiaratamente tali, nei rapporti con le persone – a partire da quelli coi dipendenti – spesso trattati umanamente con distanza, sufficienza, fino al disprezzo dell’individualità e dell’efficienza creativa, giudicata una minaccia ed un grave pericolo, e del rapporto coi terzi in genere, trattati con non celato atteggiamento di ingiustificata superiorità. Non mi si dica, al riguardo, che coerenza e partecipazione ideale sono un optional, se non in realtà ormai divenute principalmente strutture di potere e commercio. E per legittimare il percorso, la storia e l’esistente organizzano disabitati convegni di asserita profonda cultura, con dotti e graditi relatori, cariatidi del deviato trascorso e del tempo finito, che intrattengono i pochi presenti e cercano di confondere i tanti assenti spargendo incenso sulla validità del cattolicesimo delle istituzioni, della presenza attiva e dinamica nel sociale, sulle loro ricche – ma invero modeste – “imprese” di ogni giorno.
Resistere, come Cristo di fronte al Sinedrio, lungo la salita del Calvario, appeso alla croce e sperare, come la fede in Lui insegna e la persecuzione induce a fare. “Non piegarti al volere corrente, ma resisti e frequenta i tuoi sogni. Fingi di essere, uno di loro, dei tanti arresi, e che non lottano, più. Per non rovinarti la vita, per chi ti è vicino, per non essere deriso, per continuare a credere. Non sentirti mai solo, e se fosse, devi però conoscere che non solo la vita scorre, al ritmo del tempo”.
Essere Chiesa oggi. All’interno della Chiesa stessa sono presenti sensibilità diverse, percorsi formativi e culturali tra loro distanti, appartenenza a strutture gerarchicamente organizzate che si traducono sovente in sistemi di proprietà, con regole, obiettivi, interessi reali ben differenziati e tra loro distanti, se non addirittura inconciliabili. Tutto sotto l’egida della Santa e Romana Chiesa, definita “una” e cattolica. Credo sia davvero necessario pensare a dimensioni ecumeniche nuove, per dare linfa e nutrimento ad una realtà ecclesiale ripiegata altrimenti sui propri interessi di bottega, concreti e solidi finché si vuole, ma certo di basso profilo e privi di una qualche suggestione autentica. Ci sono fortunatamente alfieri del nuovo, occhi capaci di leggere l’attualità e le novità del mondo con aderenza al Vangelo e spirito libero. Mi ricordano gli occhi elettronici, quelli delle telecamere e macchine fotografiche che sapeva usare con maestria e rara poesia, coi quali l’amico don Eridano Torri mi ha conquistato, spingendomi, suo malgrado, a scelte coraggiose, a canti fuori dal coro, a rinunce, faticose, al facile ed al conveniente. Non voleva che mi esponessi, ho colto così la sua preoccupazione quando, conoscendomi e sapendo che l’avrei fatto senza cedimenti, gli ho accennato al richiamo che forte avvertivo per i temi della giustizia e della missionarietà. Io e lui avevamo raggiunto un grado di amicizia matura, fatta di vicendevoli e sinceri contributi l’uno all’altro, di consigli leali e di convinta stima. Ma un mattino, troppo presto, ha preso il volo: era la prima domenica di avvento e dopo aver celebrato la messa e commentato il Vangelo, si è anche lui incamminato, al pari di quanto suggerito dalle scritture del giorno, come chi “deve essere pronto, perché non conosce né il giorno, né l’ora”. Aveva una convinta e coinvolgente grande passione per le arti espressive e iconografiche e sapeva cogliere, nei diversi contesti che ritraeva, gli elementi tipici dell’essenzialità evangelica. E lo faceva semplicemente, con naturalezza, per dono ricevuto. Aveva lo spirito buono e sempre disponibile a ricominciare tipico del fanciullo, del quale conservava la freschezza dell’entusiasmo e la capacità di coltivare sogni. Uno, in particolare, ci legava e ci trovavamo spesso, convinti, a parlarne. Era il sogno di una presenza forte e chiara, autentica e puntuale, dei cattolici nei mass-media, in particolare nei moderni mezzi comunicativi. Non “pensiamo” – dato che ritengo il proposito più attuale che mai – che si tratti di entrare nel mercato competendo con le altre realtà del mondo civile, cercando maldestramente di imitare, peraltro inutilmente, le realtà commerciali. Piuttosto si tratta di essere se stessi, credibili e considerati in quanto veri, senza fuorvianti mascheramenti.
“Alzati, scuotiti, credici. Scorda il nome, e chi l’ha dato, le regole ed i loro maestri, l’abitudine e l’ipocrisia”.
Morto su di un elicottero, caduto sul campo di calcio di un piccolo paese della Franciacorta, dove trascorreva le poche ore di libertà dai tanti impegni. Amava il cielo, gli spazi aperti, gli orizzonti infiniti. Da qui la sua passione per l’aria, che solcava lui stesso dopo averla fatta attraversare, per anni, dai suoi aeromodelli che maneggiava con bravura. L’unica sua fuga dalla realtà, troppe volte angusta e soffocante per chi è affamato di valori che valgano una vita, e che durino per sempre.
Un testimone, il suo, che come ebbi modo di scrivere “a caldo” non avrei lasciato caduto ed immoto su quell’erba. Che ho provato a raccogliere. E che dobbiamo custodire.
“Siamo qui per sporcarci, per rotolarci nel fango, per subire ingiustizie, per soffrire e morire.
Ma per salvarci, infine, nell’Amore”.
I Servitori della Pace, comunicatori di Giustizia. E’ questo il tempo di nuovi martiri, primavera obbligata di sangue per un’estate duratura di giustizia. Quasi un’inevitabile offerta, un tributo che l’aridità del mondo corrente chiede, perfino esige, per acquistare una vitalità ed una freschezza lontane, oggi più che mai. Idolatri, abbiamo sostituito la capacità di trascorrere un’esistenza magari sofferta ma cosciente con l’incapacità di realizzarci e la sofferenza dell’essere, presi totalmente dal vortice del non senso assunto a stile di vita. L’inutile divenuto necessario, il superfluo come segno di appartenenza, il futile che distingue e dà certezze, in chiave consumista, ma generalmente accetta e socialmente appagante. Il costo della civiltà dei beni è oggi la perdita dell’essere e della serenità, cosciente ma appagante, frutto della percezione del valore del vivere. Il mondo non cambia di per sé, non spontaneamente. La “conversione” dei singoli, fenomeno individuale e cammino solitario, non comporta un mutamento generalizzato evidente dello stile di vita e del pensare comune, frutto piuttosto di radicati e vasti processi sociali derivanti dal manifestarsi, sempre più libero ed incontrollato, del predominio delle architetture economiche. E’ ciò che attualmente chiamiamo, in una parola, liberismo. Ora si tende a distinguere e valutare la bontà delle azioni e dei comportamenti sulla base dei risvolti di natura etica, giungendo a definirne dei parametri di riferimento, come se il concetto stesso di azioni buone e cattive possa avere un rilievo ponderale ed intendendosi per tali quelle azioni rispettose della centralità dell’uomo, volte a tutela dell’ambiente e delle priorità della socialità del vivere, attribuendo responsabilità morali dirette alle azioni non tanto e solo dei singoli ma a quelle dei gruppi, distinguendoli in buoni e cattivi a seconda del grado di eticità rappresentato. E’ una concezione, di una certa apparente funzionalità, che tende però ad una visione manichea del vivere civile. Bisogna ricondurre l’azione alla responsabilità del singolo e sono le istituzioni di governo, correttamente interpretate, che devono indicare ed esprimere con la forza del diritto l’eticità collettiva di indirizzo e comportamento. Il problema è a monte, deriva dalla concezione stessa di comunità civile organizzata, e delle leggi che la devono governare, quindi di Stato, non importa se e quanto poi delocalizzato a livello funzionale, aspetto meramente di incidenza e natura più o meno efficientista. Certo, l’esperienza delle realtà del terzo settore è vivificante e stimolante, un riferimento significativo sulle capacità davvero etiche di intendere le azioni anche economiche. Ma altro è pensare di poter cambiare le regole partendo dalla singola iniziativa, dispersa nel mare dominante del controllo del mercato. L’esperienza stessa di una realtà finanziaria bancaria, nata in Italia con caratteristiche innovative ed alternative alle logiche economiche correnti, sta di fatto dimostrando che a cambiare, in effetti, non è il mercato – che si limita ad operare marginali ritocchi di carattere commerciale adeguando e diversificando proposte e suggestioni con fragili richiami all’etica – ma è proprio il nuovo, che con lenti e travagliati processi di trasformazione ed adeguamento sta sempre più assomigliando al preesistente. Nel mondo, del resto, perfino le ideologie più radicali e convinte sono crollate o profondamente modificate sotto la spinta attrattiva, cui è impossibile per ora sottrarsi, rappresentata dall’economia di mercato ed esercitata dai suoi campioni, le grandi multinazionali del commercio globale.
Serve una grande unità di pensiero ed azione, una forte azione di presa di coscienza collettiva che per essere generalmente accetta e condivisa deve necessariamente passare per le vie degli obblighi generalmente imposti o dall’appartenenza convinta e militante a identità morali e culturali forti. Compito dei cristiani oggi è quello di ingaggiare una lotta convinta per la pace ed un cammino coerente di giustizia che passano necessariamente dallo scontro, fecondo, doloroso e di grande generosità, con le strutture di peccato e di morte e chi le rappresenta.
Impegno che non può essere assolto da chi interpreta meccanismi di governo delle chiese nella Chiesa, detiene proprietà ed esercita controlli di grandi imprese di mercato, partendo da capitali di provenienza del mondo cattolico, sentendosi in diritto di disporre in generale perché dispone, in pratica, di ingenti finanze.
E con la visione del mondo e della Chiesa strutturalmente improntata ai dogmi dell’economia di mercato cerca di controllare fin dal nascere, infiltrando direttamente pedine ed agendo con le leve del potere e del consenso politico, tutte le iniziative che possano rappresentare segni concreti di novità e possibile, per quanto assai improbabile, sommovimento concreto del governato esistente.
Ed i servitori di pace – comunicatori di giustizia, per essere fecondi, devono invece sapersi spendere senza riserve, è questo il tempo della loro azione.
Dispersi come i semi nel campo, agiscono là dove si trovano, cercando di attecchire e crescere, nel dialogo, nel consenso, nella reciproca comprensione.
“Sono loro, i volontari della vita, gli appiccatori di fuoco, i martiri della speranza, i crocifissi del tempo, gli angeli del mondo”.
Un Sogno chiamato Dio. “Venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in Cielo così in Terra”. Ed ancora: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Così ci è stato insegnato dal Figlio a rivolgerci al Padre. E’ una preghiera a Dio certo gradita. Non è solo un atteggiamento corretto, indica un programma ed azioni conseguenti di vita. Parla della richiesta che si realizzi un Regno, un mondo nuovo, la gloria stessa del Signore presso il quale accamparsi e restare. Proviamo a sentirci partecipi di un’utopia, di un progetto che ci appartiene, che è intrinsecamente nostro e solo è capace di darci pienezza di vita e vero appagamento.
<< Anno del tempo trascorso, era del mai, nel posto del dove, insieme ai soli del giorno, riscaldati dal fuoco dell’energia creatrice, leniti dal buio delle stelle, amici del caos e del niente, e felici di vivere. Aperti gli occhi cerco le vie d’uscita dal luogo del riposo e mi riordino, pronto per dare corpo al giorno. Ciclo vitale improntato all’azione dell’essere, momento dell’azione. Non ho pensieri ormai di natura contingente, né preoccupazioni nell’immediato. Siamo riusciti a dare dignità all’essere ed a ripianare secoli d’ingiustizie e differenze originate dall’inganno e dalla sopraffazione, dalla furbizia e dalla fortuna del nascere già creditori o dalla avvilimento dell’essere partoriti nel mondo dell’esclusione.
Dopo anni di lotte e duri confronti, quando il mercato era ormai saturo e la miseria dilagante, si è deciso infine di salvare il mondo, prima che fosse troppo tardi. Le ultime decisive rivolte di massa, represse nel sangue, avevano reso incandescente la situazione, in tutto il pianeta. Il Potere globale stesso decise allora di imporre la ridistribuzione degli averi, nell’ambito dell’unica potestà conferitagli. Si stabilì una data dal simbolismo forte, riferita oltre le angustie dei propri limiti generazionali e si dispose affinché, da quel momento in poi, i nuovi nati fossero titolari di quote di “valore mondiale”, ottenuto dopo aver sottratto dalle ricchezze del mondo i valori quote di attribuzione alle lobbies economiche multinazionali ed ai gruppi del potere costituito.
Non era stato un processo indolore, si era dovuto fronteggiare, anche con l’uso della forza, il tentativo di strenua resistenza – sfociato anche in sanguinose azioni terroristiche – da parte dei gruppi depositari di ingenti patrimoni che, dalla ridistribuzione di ricchezze, uscirono infine inevitabilmente ridimensionati.
Era comunque stato garantito l’accesso alle finanze mondiali da parte della grande massa degli esclusi figli degli inutili, i nuovi schiavi senza adeguata formazione a cui erano fino ad allora preclusi anche i principali servizi sociali, gestiti ormai da grandi gruppi privati a favore dei soli individui in grado di pagarli.
Di fatto, da tempo, il mondo si reggeva su grandi processi e movimenti speculativi di natura finanziaria, da servizi resi e prodotti commercializzati in ambito multinazionale, su attività svolte con l’ausilio di sistemi artificiali intelligenti in grado di riconoscere le disponibilità finanziarie, ma non i bisogni reali dell’uomo.
Si decise allora di imporre, nella gestione dei patrimoni liquidi, la quota definita d’indennizzo sociale, determinata sulla base delle esigenze di denaro calcolate per fare fronte alle fondamentali necessità delle masse escluse e di quanto occorrente per sostenere lo sviluppo economico, restituendo integrità all’ambiente.
Erano quindi state finalmente gettate solide basi, superando ostacoli e gravi conflitti, per l’equa distribuzione dell’esistente ed era stata soprattutto sanata la tragica e vergognosa piaga, per le coscienze del mondo, delle inconcepibili morti per fame, vergogna ed abominio per l’intera umanità mai debellato in precedenza.
La differenza tra le persone sarebbe consistita nel compito sociale svolto e nella possibilità di progredire, meritandolo, lungo il percorso di crescita nella coscienza civile e di partecipazione ai processi creativi ed ideativi del miglioramento complessivo.
Nessuno più viveva nella necessità, e la dignità della vita era garantita a tutti, senza distinzioni di appartenenza e di pensiero.
La ridistribuzione dei beni e la garanzia del rispetto dei diritti di ciascuno erano ottenuti anche mediante il costante riferimento ad organi – non influenzabili – di disciplina dei rapporti sociali, retti e controllati da sistemi d’intelligenza artificiale scevri da ogni possibile condizionamento.
La giustizia era quindi resa oggettiva, valutando le situazioni e l’operato, comprese le implicazioni psicologiche e morali, senza però inquinanti correlazioni con le identità specifiche.
Si iniziò quindi a giudicare i fatti ed i contesti, indipendentemente dagli attori degli stessi.
L’identità ed i doni personali, finalmente valorizzati, permisero di porre fine allo scempio dei talenti ed alla vergogna dei ruoli acquisiti per “diritto” di nascita.
Non sarebbe più successo che l’attività di una persona ed il suo ruolo sociale potessero derivare da cieca casualità, conoscenze personali od influenze esterne, né che una personalità artistica potesse essere destinata a scienze esatte ed un individuo logico matematico al servizio della fantasia. E, ciò che più contava, si impediva finalmente che disagi economici e familiari, uniti ad ostacoli geografici e luoghi di provenienza, potessero precludere ogni più idonea valorizzazione del singolo.
Di quelli che ormai erano considerati autentici “crimini contro l’umanità”, in passato, ne erano stati commessi troppi.
Ogni individuo era divenuto portatore di “quote di possesso” a lui attribuite, non trasferibili in senso nominale e non vi era accumulo di patrimoni, né eredità degli stessi, ma ad ognuno veniva attribuito secondo il bisogno e non vi erano poveri, o persone in stato di necessità.
Per rendere giustizia al mondo – ed acquietare le masse – e contribuire così a costituire i capitali delle “finanziarie sociali”, si era provveduto non solo alla distribuzione delle ricchezze giacenti nei grandi patrimoni mobiliari, ma pure al forzato recupero dei delitti economici di vasta entità, anche commessi da lungo tempo.
Ciò aveva significato individuare le persone fisiche detentrici di grandi possedimenti, importanti beni immobili ed ingenti capitali ed averne verificata la loro genesi e formazione, anche se risalente a generazioni addietro. Nei casi in cui fosse noto, per fonti documentali, storiche o testimoniali diffuse, che l’origine della ricchezza proveniva dall’esercizio di attività, anche degli avi, non legittime o dubbie e da pratiche commerciali svolte senza scrupolo approfittando dell’altrui debolezza ed ancor più del bisogno, si provvedeva al pronto recupero di quanto nel frattempo accumulato, con indennizzo, se necessitato, a favore degli eredi dei depauperati.
Era la pratica, concreta ed attenta, della giustizia nei rapporti umani e nella distribuzione delle ricchezze, azione che non può conoscere limiti di tempo né prescrizioni legate alle sole persone prime autrici dei fatti iniqui, poiché chi ne è comunque in possesso nel presente, ha ereditato sia beni sia colpe. Prevaricazione, disonestà od anche solo scaltrezza non legittimavano quindi il possesso, anche continuato nel tempo, di beni illegittimamente posseduti. La colpa commessa risultava inoltre più grave, considerato che all’inizio dell’operazione “giustizia senza tempo” vi erano ancora milioni di persone, nel mondo, costrette a morire di fame, senza assistenza, cure, prospettive né sicurezze.
Grandi travagli si erano avuti anche in tema di definizione di una morale comune, soggettiva e di indirizzo pubblico: nodo centrale era stata la definizione del concetto stesso di vita. A fare da sfondo, e motivo di profonda e combattuta riflessione, le ripetute ed estese violenze, le aggressioni all’esistenza causate dalle esasperate nocività ambientali, le edonistiche tendenze volte a manifestare segni di autosufficienza nella riproduzione, modifica e selezione della vita, con le aberrazioni genetiche e le gravissime malattie che ne erano derivate, impossibili da controllare ed in larga diffusione.
Si stabilì il concetto generale di vita assistita e tutelata, se ne difese l’origine, il manifestarsi, l’evolversi ed il divenire ultimo. Alla base l’idea stessa di esistenza, rafforzata dalla condivisa percezione, resa maggiormente evidente dalle più recenti scoperte scientifiche, che la vita sia originata dalle profondità del tempo e del cosmo per essere proiettata verso dimensioni altre, in un continuo processo evolutivo volto alla perfezione dell’essere ed alla sua perpetuazione nei cicli e nei diversi mondi, tra loro contigui.
Enormi i progressi scientifici raggiunti, nel rispetto della natura umana e nella salvaguardia dell’ambiente naturale, considerato bene comune di primario rilievo.
Le stesse identità regionali ed i popoli in via d’estinzione – almeno ciò che ne restava – definiti infine patrimoni dell’umanità e ricchezze da salvaguardare e proteggere.
Non vi era infatti più motivo di agire in via egemonista e coloniale, essendo venuto meno l’interesse, precedentemente dato, dalla possibilità di acquisire patrimoni, occupandoli.
Si acquisì la consapevolezza scientifica dell’impossibilità di generare vita, autentico miracolo a noi impossibile.
Con saccenza e protervia potevamo intervenire per modificarla, interromperla, perfino copiarla, ma ci è per sempre precluso di dare alito vitale a materiale inerte, che il caso e le combinazioni volute non possono trasformare altrimenti. Dalla non vita, non si ottiene la vita. Non noi, almeno.
Torno in me ed al mio interno sento la vita scorrere, nel silenzio della quiete circostante. E’ lo stesso vuoto di rumore che accompagna da sempre le riflessioni più attente e convinte dell’uomo, lasciandolo solo di fronte agli interrogativi irrisolti della vita, senza deviare dalla centralità della questione e dal suo porsi a ciascuno, senza distinzioni e senza remore di sorta.
Carico di attese ed affaticato dalle contingenze correnti cerco ansioso visuali più ampie e nuovi orizzonti, senza perdere di vista la mia posizione di lotta, convissuta da tempo.
E penso, ponendomi in ascolto del silenzio.
Mi è naturale, perfino piacevole, sentire il calore di un niente che tutto avvolge e che mi parla di sensazioni lontane, ma non estranee, che danno un significato al presente, leggono con misericordia il passato e attizzano speranze per il domani.
Ed aspetto, sapendo che solo il tempo, nel suo defluire, mi darà le risposte mancanti. Non devo avere fretta: anche immobile sono in effetti in viaggio.
Anche ciò che d’intorno mi appare fisso, in realtà è in vorticoso movimento, nel tempo e nello spazio.
C’è una dimensione altra, che non è lunghezza e distanza ma il moto immobile del tempo, che tende ad annullarsi nell’eternità. Scorre dall’inizio ad oggi, fino alla fine e riprende alla rovescia, da quando è cominciato fino al vero nuovo inizio, posto nel termine a noi noto ma per molti aspetti oscuro.
Volti che non conosco e ignoro, nomi che non pronuncio, voci che non sento, pianti e risa che non vedo, tutto confuso nell’unica certezza: non può essere vano, né casuale o perso per sempre.
Osservo: dal mio punto favorevole e riparato posso notare quanto accade d’intorno.
Ed all’improvviso eccoli, avanzano con passo spedito e sguardo fiero, si riconoscono facilmente, non solo perché solitamente in gruppo: sono i nuovi modelli del tempo corrente, le fonti di assunzione delle determinazioni riguardanti l’intero svolgimento delle pratiche quotidiane, sono giovani, privi di condizionamenti materiali, ricchi di forti idealità e caratterizzati da una chiara ispirazione artistica. Si sta vivendo un nuovo rinascimento, con grande respiro alle rappresentazioni del bello, inteso come valore non solo astratto ma sempre più vissuto in quanto divenuto fine dell’agire, avvicinamento pratico a soluzioni perfette, pure così realmente disaccordi con la natura umana. Siamo orgogliosi di questi nostri figli, siamo riusciti a distaccarli dai precedenti condizionamenti consumisti ed utilitaristici del vivere, recuperando la vera capacità creativa insita nel nostro essere.
Gli anziani, benché giovani anch’essi nell’aspetto – uno dei visibili progressi scientifici raggiunti – è però possibile distinguerli anche per qualche maggior lentezza nel procedere, come una insita e connaturata prudenza – seguito anche di esperienze, anche dal duro prezzo, fatte in prima persona – avendo fatto memoria del fatto che la realtà della vita si presenta sovente incerta ed insidiosa, e va quindi affrontata con cautela. Con una maggioranza dei giovani più propositivi e sensibili e la presenza di alcuni adulti giunti a maturità del vivere e del trarne insegnamenti, dopo essersi distinti – fino ad allora – per nobiltà d’animo e spirito di servizio del bene comune, si era pertanto formato il “Consiglio d’indirizzo”, deputato ad esprimere le linee guida generali del Potere globale, dirimere controversie, svolgere azioni a supporto della crescita civile e della salvaguardia etica dell’esistenza.
Il “Consiglio d’indirizzo” si avvaleva del dialogo costante con le componenti adulte della comunità ed in particolare dell’apporto del consiglio e della mediazione femminile, in particolare della saggezza materna.
Gli uomini e le donne attivi nella gestione corrente delle attività sociali quotidiane davano corpo al “Consiglio d’azione” che, recependo le indicazioni del “Consiglio d’indirizzo”, agiva di conseguenza.
Avevamo cambiato il mondo, cambiando prima noi stessi.
Lungo le strade del nuovo mondo. “Coloro che si cibavano di leccornie, languono lungo le strade; coloro che erano allevati sulla porpora, abbracciano letame”.
Spirito d’azione, angelo consolatore, figlio del Figlio dell’uomo, raccontaci il tuo viaggio.
Voce del testimone, vivente nel Risorto:
Siamo a metà di agosto. Sono in movimento con alcuni delle comunità indigene, verso San Luis de Morichal, ci vorranno due giorni. Visiteremo una piccola comunità di cattolici, formata da 20 persone. Ci vorranno circa otto ore di navigazione, sul Rio Kuyunì prima e dopo sul Rio Chicanán.
Mi trovo nel porto di El Dorado; dovevamo partire alle nove del mattino ma alle 13 siamo ancora qua. Il motore non andava bene, il meccanico non arrivava, siamo arrivati fino ad ora. La navigazione avverrà con una curiara, un’imbarcazione di circa otto metri molto simile ad una canoa. E’ infatti scavata nel tronco di un albero.
Mi accompagnano Lorenza, Matilde, Félix con sua moglie e suo figlio ed un piccolo cinghiale. Durante il viaggio potrò raccontarvi il mio mondo, immerso come sarò nel verde della natura. Il rio è gonfio d’acqua – ultimamente ha piovuto parecchio – la navigazione sarà pertanto veloce dato che tutti i salti e le rapide che si incontrano in tempi di secca sono ora sommersi.
Si parte…. Tra poche ore il primo salto che incontreremo è il Chinokoaka. La comunità dove arriveremo stanotte è costituita in totale da circa 80 persone. La maggioranza sono avventisti e solo una famiglia è cattolica. Oggi il sole splende nel cielo terso ed il verde della selva rigogliosa appare più vivo ed intenso, in questa stagione di piogge. Tutt’intorno la natura pare in festa: è un tripudio di colori, di forme, di vegetazione fitta e lussureggiante grazie anche alla vicinanza vitale dell’acqua. Il rio sembra uno specchio sul quale scivoliamo spediti. L’acqua è limpida, uno spettacolo magnifico.
Ultimamente ad El Dorado è diminuita l’attività dei minatori e la trasparenza delle acque ne è il segno più evidente. In questa visita a Morichal, che facciamo ogni due mesi, andiamo solitamente in almeno sette od otto persone, data la natura del trasferimento. Oggi siamo meno del solito.
In questo giorno moltissimi indios sono infatti andati a Sant’Elena de Wuairén. Oggi si inaugura infatti il “tendido electrico”, ossia tutta la nuova linea elettrica che dalla diga di Macagua va alla città di Boa Vista in Brasile. Sono presenti all’inaugurazione il Presidente del Venezuela, Chávez e quello del Brasile, Cardoso. Gli indios sono andati in massa per protestare ed intendono cercare di parlare con Chávez. Durante tutta l’esecuzione dei lavori numerose sono state le azioni di resistenza degli indios al passaggio delle linee elettriche sul loro territorio. Diversi tralicci sono stati abbattuti e la Guardia Nazionale venezuelana ha iniziato a presidiarne le strutture. Gli indios hanno ottenuto delle generiche garanzie circa il fatto che non vi sarà esproprio di terreni, che gli indios ritengono comunitari ed appartenenti al loro popolo. Ma le promesse sono solo di natura verbale e gli indios, avendo imparato a loro spese quanto possa valere la parola dei bianchi, vogliono invece rassicurazioni ufficiali scritte. La loro preoccupazione è anche legata al timore che il passaggio delle linee elettriche equivalga all’inizio di un cataclisma culturale dalle portate tragiche ed irreversibili, per la loro identità e la stessa vita. Credo che non riusciranno nemmeno ad avvicinarsi al Presidente, c’è un’indifferenza troppo grande attorno alle loro istanze. Bisognerà provare ad organizzare la resistenza in altre forme.
Proseguiamo la nostra navigazione accompagnati dal rombo costante di sottofondo del nostro motore. Viene spontaneo domandarsi come doveva essere ancora più densa di fascino e piena di silenzio la vita di queste comunità prima dell’arrivo di qualsiasi forma di tecnologia, fino a qualche anno fa. Un vero Paradiso. E’ vivendo immersi in questa splendida natura che ci si rende davvero conto di che meraviglie abbia operato Dio.
Maggiormente oggi, che è il giorno dell’inaugurazione della linea elettrica nella Gran Sabana, è inevitabile pensare quanto noi stiamo modificando l’ambiente, trasformando così profondamente il mondo, che poco a poco rendiamo irriconoscibile rispetto a come è stato originariamente creato. E sempre più invivibile. Qui tra noi, sulla stessa curiada, possiamo passare ore ed ore in silenzio, guardandoci spesso. Al momento in cui ci rivolgiamo alcune parole ci rendiamo conto di non aver però mai smesso di dialogare, anche senza parlare. Siamo in una comunione profonda, tra di noi, col fiume e la selva, il cinghialino a bordo e gli animali tutt’intorno. Se penso a quanto fiato sprechiamo, quante parole banali, quanti discorsi superficiali facciamo in continuazione senza costrutto, nella nostra società del rumore e dell’apparenza, che riteniamo più avanzata e che tutte queste parole fatte, invece che unirci maggiormente, alla fine ci distanziano e separano, isolandoci.
Anche nelle comunità indigene si è cominciato ad usare “la tecnologia” dell’uomo occidentale. Sono arrivati i motori, le radio, la birra, il generatore elettrico, i frigoriferi, i beni di consumo, anche se in misura naturalmente molto inferiore. Chi, provenendo dal Nord del mondo, visita una casa delle comunità indigene pensa facilmente che gli occupanti vivano ancora ad un livello quasi primitivo. In realtà le “tecnologie” che li hanno già raggiunti stanno cambiando profondamente la vita degli indios, a partire dal loro modo ricco e straordinario di concepire le relazioni umane. Non so fino a quando potranno conservare immutata la grande ricchezza umana ed il vasto ed unico patrimonio culturale che li caratterizza. Nei miti della cultura Pemón, nei racconti sulle origini di questo popolo emerge un’antropologia di notevole interesse. In tutti questi miti gli animali parlano. Gli animali sono come umanizzati: hanno sentimenti, intelligenza, un cuore. Ad un certo punto arriva qualcosa di esterno, violento ed estraneo che scompagina questa umanizzazione della realtà. Ancora, gli indigeni Pemon credono che tutto sia animato, sia possibile comunicare con gli animali e gli esseri che vivono nei fiumi, nella selva. Però adesso c’è come una difficoltà nuova a stabilire questa comunicazione. Con il tempo è andata cadendo l’umanizzazione degli esseri. C’è bisogno di ritrovare un equilibrio che consenta alla gente di essere Pemón, di essere quindi persone davvero. Temo che l’avanzare della cultura del consumismo, della cultura “blanco occidental”, certamente non favorisce l’umanizzazione della realtà. Qui sulla curiara siamo due uomini, tre donne, tre bambini ed un animale, ma c’è come un legame profondo con tutto.
Ci si sente immersi nell’acqua, uniti al Ratò che è il signore del fiume, con il Piaimán che è il signore della collina, con gli Mawarì, gli Esseri della selva. Certo c’è timore di questi Esseri, di questi Signori, ma c’è soprattutto un rispetto mutuo che permette a ciascuno di vivere nella propria dimensione e di essere quello che uno realmente è. Di essere se stessi. Credo che ciò sia quanto più manca alla cultura ed al modo di vivere occidentale. Un’armonia interiore ed il rispetto per le identità, che noi non conosciamo più. E’ un comportamento basato anche sul timore e sul rispetto di regole. L’indio non attraversa la selva o naviga il fiume con superficialità, ma si sottopone prima a dei riti propiziatori, affronta come una preparazione. Ed in alcuni momenti della sua vita sa che questo contatto gli è precluso: se è malato od ha avuto un figlio da poco, o durante il flusso mestruale, se è donna. Ci sono delle regole da rispettare, quindi, per mantenere l’armonia e vivere integrati con una natura forte, selvaggia, piena di insidie, come quella nella quale vivono.
Ma il Pemon – la persona – sa come viverci perché ha scoperto che cosa deve temere, cosa deve apprezzare, come è necessario che si rapporti con la natura nella quale è completamente immerso. Vivere qui cambia completamente il riferimento dei valori che più contano e si comprende appieno quanto “povera” sia la vita nella realtà occidentale dove il tempo è scandito dalla preoccupazione della produzione, dell’accumulo dei beni, dal gestire strutture economiche, e dal possedere sicurezze materiali.
Diventa così impossibile godersi l’oggi, ciò che si vive. E l’unico momento che abbiamo invece realmente da vivere è proprio questo presente. Qui seduti nella canoa, immersi nella selva, senza sapere cosa ci accadrà tra un minuto, sapendo che ciò che abbiamo vissuto ieri, il mese scorso, anni fa, non torneremo più a viverlo. Nel Nord del mondo la preoccupazione è rivolta soprattutto al domani, mentre qui l’accento si pone sul presente, sul nostro oggi. E’ per questo che l’indio sa godere profondamente di ciò che la vita gli dà, e gli dà adesso, nel momento presente.
Per me è un dono grande, essere qui con loro, arricchito da queste relazioni così profonde. E vere. E’ un modo di gustare appieno la vita, ed il suo reale significato. E siccome la vita è Dio stesso, ogni momento che io sperimento questo io sto sperimentando profondamente Dio. Anche questo momento di vita è per me un’orazione vissuta con Lui ed in unione profonda con tutti gli esseri della Creazione e del cosmo. Anche per te questo è ora possibile, se lo vuoi. Qui, isolati in questa selva, siamo immersi nel tutto. Ma è un isolamento apparente: in realtà siamo profondamente uniti con tutti gli esseri viventi e l’intero universo. Riuscire a trasmettere questa immensa ricchezza all’uomo della società dei consumi è il mio desiderio più vivo.
Anche in campo ecclesiale ci si esprime ormai da tempo circa la necessità dello scambio reciproco nell’incontro con le altre culture. L’avvicinamento all’altro è un dare e ricevere, non in chiave mercantile ma come scambio di doni e ricchezze delle quali si è portatori. Ho io stesso scoperto che, venuto per dare, ho molto più ricevuto. La fatica è piuttosto quella di trasmettere i regali ricevuti alla propria realtà di provenienza. Sono infatti doni che parlano la lingua del cuore e che l’animo sa cogliere ed è impossibile codificarli in idee razionali, in concetti da comunicare agli altri. E’ il senso della pienezza della vita, dell’unità in perfetta comunione di spirito. Nelle quattro ore di attesa al porto di El Dorado pensavo a quanto si sarebbero spazientiti, al nostro posto, dei passeggeri provenienti dal Nord del pianeta. A che ora si parte? A che ora arriveremo? Come mai questo ritardo? Sono le undici… E’ già mezzogiorno! Se servono otto ore di navigazione, già alle 18 non si vede più niente sul fiume. Dovremo navigare per alcune ore nel buio pesto, potremmo andare a sbattere contro qualche tronco, qualche grosso masso, può essere pericoloso …. Ci aspetteranno ancora? Tutta una serie di domande tese sempre verso il futuro.
Qui invece, come sempre, se c’è da aspettare si attende e si vive il momento dell’attesa. Cosa succederà fra alcune ore, non importa. E’ qui lo scontro forte di mentalità, con la nostra occidentale. L’uomo “tecnologico” è abituato alla pianificazione, all’organizzazione, alla predisposizione in anticipo di comportamenti ed azioni. Su questa canoa non ci stiamo invece preoccupando: se quando sarà buio navigheremo ancora vedremo allora il da farsi, se ci attenderanno all’arrivo bene, altrimenti non sarà un problema: proseguiremo comunque.
Dove c’è una persona lì è già accoglienza ed incontro. E’ ora quasi l’una (non di notte), la lunga navigazione immersi nella selva e nel nostro essere prosegue. Siamo appena giunti nei pressi della comunità di Santa Maria del Vapor. Ci passiamo vicino, ma non ci fermiamo. Iniziano qui le prime case della comunità, con il nucleo principale, ma poi le abitazioni sono presenti in gran numero sparpagliate e disseminate lungo il corso del fiume. Ne incontreremo pertanto spesso, nelle prossime due – tre ore di navigazione. Questa comunità è formata da circa seicento persone che, durante l’anno, in occasione di alcune feste rituali, si riuniscono tutte qui, nel luogo d’incontro. Sono le uniche occasioni che li vedono riuniti comunitariamente. Vivono della pesca, della caccia e soprattutto dei frutti dell’agricoltura. Adesso ci fermiamo alla casa della nostra guida indio. “Rapido, devi solo prendere l’amaca ed il telo per riposare stanotte …”
Alla luce posso leggere l’ora esatta, mentre i bambini risvegliati dal loro sonno vociano con le mamme. Mi ero sbagliato di circa un’ora: sono infatti le due di pomeriggio, a conferma di quanto relativo sia il tempo ed il suo scorrere, in questo mare di verde e di acqua. Ripartiamo dopo circa mezz’ora, è infatti impossibile, da queste parti, fare sosta presso un’abitazione senza entrarvi e fermarsi. La gente invita infatti a scendere, e sempre c’è qualcosa da condividere. In casa non vedi quasi niente ma il poco che c’è, è a disposizione di tutti quelli che passano, e che sono considerati fratelli. Il motore si spegne un paio di volte …. ma fortunatamente riparte.
In quella casa ci hanno offerto un pezzo di anguria, frutto che in questa stagione di piogge si riesce a coltivare bene, ed una bevanda ricavata col succo di mango. Ne avevamo bisogno. Per tutto il giorno il sole, davvero cocente, è stato infatti alto nel cielo e la temperatura quindi molto elevata. Abbiamo cercato di lasciare alla famiglia, in custodia, il cinghialino. Ma non è stato possibile, perché questi animali, quando fin da piccoli sono accuditi dalla stessa persona, si legano molto a questa e non se ne vogliono staccare. Ed è riuscito a farcela, si è nascosto nella canoa, sotto le borse. Ce ne siamo accorti da poco. Volevamo riprenderlo al ritorno, invece è rimasto con noi: Siamo ancora tutti in gruppo, così come siamo partiti.
Durante la navigazione è frequente che, dalla riva, piccoli gruppi di persone ci chiamino e ci invitino ad accostare. Ogni incontro richiede attenzione al momento presente, spazio per l’ascolto, accoglienza reciproca e …. tempo. Mezz’ora passa facilmente, spesso anche di più. Anche questa è un’esperienza molto bella, per noi poveri bianchi inesperti, poiché ci fa avvertire in modo netto il senso dell’appartenenza all’unica famiglia umana.
Quindici anni fa volevo entrare in un monastero. Non mi è stato possibile. A spingermi era un’esigenza grande di cercare Dio, profondamente, di fare un’esperienza molto forte di Lui. In questa ricerca del Volto di Dio c’era anche una ricerca a livello profondo dell’uomo. Dopo tutti questi anni vissuti con gli Indios ringrazio di non essere entrato in un monastero ma di aver potuto provare quest’esperienza unica. Ho potuto veramente sperimentare Lui, mi sono incontrato con Dio in forma profondissima.
Poche settimane fa mi ha scritto un amico che mi confidava tutto il suo smarrimento, come lui era sconvolto pensando ad una moltitudine di uomini e donne sulla Terra che sono privi di tutto, mentre le società del benessere sono così piene di cose, la maggior parte delle quali perfino superflue. E lui stava male, pensando al bisogno, pensando a come riducendo il livello di vita di chi ha il superfluo si potrebbe fare tanto per molte persone, che vivono senza il necessario. Ed è tragicamente vero. C’è bisogno di una maggior giustizia nella distribuzione dei beni.
Gli ho risposto che vorrei tanto che lui potesse però sperimentare la ricchezza di vita di cui sono portatori questi popoli impoveriti. Sono poveri solo dal punto di vista del possesso dei beni materiali, che sarebbe giusto trovare il modo di rendere loro, dato che Dio li ha messi a disposizione di tutti e non di una minoranza privilegiata ed egoista. Garantiremmo così a loro almeno la dignità del vivere. La “ricchezza” di cui loro sono portatori è invece a disposizione di tutti e sono felici di poterla condividere con chiunque incontrino, anche del Nord del pianeta. Chi è sensibile, e soffre per le ingiustizie del mondo, dovrebbe poter provare la consolazione che deriva dall’incontrare la ricchezza vera di vita di cui sono portatori questi popoli indigenti. “Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? (Mt. 6,25)”. E’ una grande lezione di vita, un insegnamento alto ed unico.
Finalmente giungiamo a destinazione. La gente ci aspetta: certamente il rumore della canoa in arrivo l’hanno sentito da lontano. Hanno in mano delle lucerne, con le quali ci rischiarano il cammino. “Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui (Gv 1,7)”. Ci conducono alla “casa” messa a nostra disposizione. Sono quattro pali di legno con sopra una lamiera a fare da tetto. Lì appendiamo le nostre amache e ci sdraiamo per riposarci un poco.
Una domanda mi si affaccia dal profondo del cuore, tenendomi desto: “Perché i tuoi cammini mi hanno condotto qua, o Signore?”. Uno si sente così debole, perfino impotente di fronte ad una realtà così forte, per certi aspetti perfino tenebrosa. E mi si avvicina Marcos per parlarmi dei suoi problemi, della sua stanchezza, dell’immane fatica che consuma nella miniera di oro, in condizioni disumane. Tutta quella fatica, quel lavoro così duro … Molte volte per niente. Ma lui mi dice che lo fa sperando di poter portare qualcosa a sua madre. La comunità è rimasta infatti senza raccolto quest’anno, a causa del tempo che ha impedito la semina della yuca, che è la base per l’alimentazione degli indios. Serve infatti per preparare il casabe, che è l’equivalente del pane per gli indios. Manca yuca, manca batata per poter produrre la loro bevanda nutritiva, manca anche il platano. In una parola i campi sono vuoti e con essi le dispense alimentari dell’intera comunità, che vive di un’economia agricola di sussistenza.
E poi Romualdo, il fratello, che è ammalato da tempo ed ha il corpo paralizzato a metà. Romualdo da tre anni non si cura perché non ha i soldi per acquistare le medicine. Quando tre anni fa è stato ricoverato per un mese in ospedale sembrava guarito ma poi, uscendo ed interrompendo la terapia, ha avuto una grave ricaduta. Ed io ascolto, ascolto …
Mi si avvicina un altro indio e mi racconta di un ragazzo che sta morendo, a causa del morso di un serpente velenoso. Sono andati a prenderlo. Ed una volta ancora mi chiedo: “Perché i tuoi sentieri mi hanno condotto fino qua?”. E’ una domanda che mi pongo spesso quando sto nelle comunità, visito la gente, condivido il mio tempo con loro. In fondo non posso fare nulla o ben poco per risolvere i loro problemi: sono troppi e troppo grandi. Certo io provo ugualmente, tutte le volte che posso. Ad esempio per Romualdo proverò a parlare con un medico, cercherò di acquistargli delle medicine con delle offerte che ho ricevuto. Ma quanti Romualdo ci sono qui!? I soldi di cui dispongo non bastano certo per tutti gli ammalati. E cosa fare per quel ragazzo che sta morendo avvelenato? Mi rivolgo a Te. Tu saprai, dico io. Ma sinceramente – a volte – mi nasce un dubbio: che anche Tu non sappia che cos’è che bisogna fare.
Poi arrivano dei bambini. Forse sono la Tua risposta….. Con il sorriso che li caratterizza si avvicinano, si sfregano contro di me cercando affetto e cercando una risposta ai loro sentimenti. Chiedono di mia mamma, che due mesi fa mi accompagnava nella mia ultima visita, chiedono di Alessandro, un amico che con Giulia e Chiara é passato nei mesi scorsi ad incontrare questa comunità. Forse è questa la risposta a “che fare”. In fondo ciò che apprezzano di più di queste visite è proprio il visitarli, lo stare con loro, conoscerci in profondità, ridere e piangere insieme, divertirsi, guardarsi, toccarsi sentendosi partecipi l’uno dell’altro ed una sola realtà. Intanto le donne stanno preparando la cena con ciò che abbiamo portato: del pesce pescato qui nel fiume. Lo mangeremo tutti insieme, come sempre. “Prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla. Tutti mangiarono e furono saziati (Mt 14,17).
Il pasto, per gli indios, è sempre un avvenimento comunitario. Soprattutto in un momento per loro straordinario com’è quello di ricevere una visita. Ci si mette tutti intorno ad un tavolo, in trenta, quaranta, quanti si è. In piedi, dalla stessa pentola, si condivide il cibo che la Tua bontà ci proporziona. E mentre mangiamo mi accorgo che la tenue luce dell’unica lucerna rischiara, appeso sopra il tavolo come un addobbo, un nido di vespe, naturalmente vuoto, di circa mezzo metro di diametro, con la scritta “Buon compleanno”. Ricordo che proprio Bernardo (mi ero sbagliato di nome) compie oggi gli anni. Dopo cena improvviso come una torta: dispongo dei biscotti che ho con me in un piatto, con sopra delle caramelle, quasi fossero delle candeline. A ciascuno dei presenti, con molta meticolosità, Bernardo distribuisce “una fetta” del dolce, come anche le caramelle, dividendole tra tutti. Tutti insieme cantiamo contenti il “Buon compleanno” a Bernardo, che ride divertito e ci guarda sorridente. Così continuiamo la serata, dopo questo momento di gioia per la festa improvvisata a Bernardo.
La sera è il momento più atteso della giornata, in cui tutti si aprono alle confidenze e parlano lungamente, scambiandosi consigli, quasi trasfigurandosi. “E’ bello per noi stare qui; facciamo tre tende (Mc 9,5)”. Tra le tante cose che uniscono questi sono i momenti più belli. La famiglia presenta il problema più grande che sta vivendo: un mese fa hanno ucciso uno dei loro ragazzi, in un litigio in una miniera, dove lavorano indigeni e “criollos”. Un assassinio a sangue freddo, anche se nel contesto di una “borrachera”, un’ubriacatura generale. Tutta la preoccupazione della famiglia è per i sentimenti dei fratelli e del papà del ragazzo ucciso. Desideri di vendetta, di trovare il responsabile ed ucciderlo, timore d’innescare catene di morti tra vendette reciproche senza fine. La vita qui si intende come un dono grande, un tesoro prezioso, ma allo stesso tempo ci sono anche queste realtà in cui si pone termine alla vita di una persona con la facilità con cui si sopprime un insetto, non dandogli un maggior valore. Ancora una volta la domanda davanti a tanto dolore, a tanta ingiustizia, a tanta contraddizione, a tante cose che non vanno è: “Che fare, perché le tue strade mi hanno condotto fino a qua?”. “Mostrami, Signore, la tua via, guidami sul retto cammino (Sal 27,11)”.
E la conversazione continua. Si percepisce, a poco a poco, che niente si aspettano da te, se non che tu li ascolti. Solo si aspettano che tu sia parte di loro, parte di questa allegria, parte di questa sofferenza, parte di questa contraddizione, parte di questa ricerca, parte di questa vita, parte del loro mondo. Questo è il gran dono dei fratelli Pemón, a nostra disposizione. La conversazione prosegue con Rosalia, l’anziana della comunità, che racconta di quando i suoi nonni – al finire dell’ottocento, primi del novecento – affrontavano lunghi viaggi di mesi, sia all’andata sia al ritorno, lungo questo Rio, per raggiungere la Guyana inglese dove potevano operare dei baratti, gli “scambi” commerciali. Grosse pepite d’oro per poter avere un sacco di cereali o venti litri di vino, da riportare e condividere con la comunità. Tra andata e ritorno trascorreva un anno. Molti morivano durante questi viaggi, spesso a causa della malaria. E’ per questo che lungo le rive del fiume, per tutto il suo corso, si incontrano numerose tombe. Di molti di questi indios si sono invece perse le tracce, nel fitto della selva. Oltre ai tanti caduti nella ricerca vitale di cibo sono parecchie le tombe degli indios morti dall’arrivo dei primi “criollos”, i cercatori d’oro bianchi.
E’ opinione radicata nelle comunità india che l’oro, prima di poter essere estratto, chieda un grosso tributo di vite. Loro sono infatti convinti che, scavando per accedere ad un nuovo giacimento, si sprigionino dal terreno dei gas letali, ai quali attribuiscono la causa delle tante ed improvvise morti iniziali. Più è grande il giacimento, maggiore è il numero dei morti che richiede. Rosalia ricorda i nomi dei luoghi in cui si sono scavati i vari giacimenti e ne ripercorre il travaglio, la sofferenza della gente. In particolare parla del Pistón un luogo in cui, ai tempi dei suoi nonni e dei suoi genitori si scontravano gruppi differenti di indigeni in lotta tra loro. Lì ci sono stati centinaia di morti, numerosi dei quali della comunità. L’acqua del fiume che scorre nella zona è tuttora ritenuta imbevibile, perché contaminata dai tanti cadaveri.
Vita e morte, allegria e tristezza, tutto mescolato in un unico crogiolo di sentimenti umani vissuti con profondità, rispetto, e partecipazione diffusa all’interno del gruppo. Ma ciò che più colpisce è percepire un senso di armonia diffusa, quasi tangibile.
(Mattina seguente). Abbiamo celebrato la messa secondo il rito dell’Assunzione di Maria, essendo domani il 15 di agosto. Ma che Vangelo, che valore assumono, tra queste membra trafitte d’indios, i richiami del Magnificat ad un Dio onnipotente che opera grandi cose in mezzo al suo popolo, che spiega la potenza del braccio per disperdere i superbi, rovesciare i potenti dai troni, innalzare gli umili!? Un Dio che, ricordandosi della sua misericordia e sulla base delle sue promesse, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote! E’ una sfida grande! Mi vuoi qui, a portare il tuo annuncio, che è difficile da dare, che costa proclamare adesso…. Mi chiedi di darlo in un momento in cui, sinceramente a me costa molto capire l’onnipotenza del tuo braccio, il tuo Regno venire, la nuova umanità germogliare. Mi costa molto vedere che siamo nei tempi nuovi, nella terra nuova, nei cieli nuovi…. Mi costa vedere come noi, tua Chiesa, stiamo dando alla Luce un bambino che il “drago” si vuole mangiare, ma che tu porti in salvo. “Queste cose sono avvenute per opera di Dio. Mi ricordo infatti del sogno che avevo visto intorno a questi fatti e nessuno di essi è stato tralasciato: la piccola sorgente che divenne un fiume, la luce che spuntò, il sole e l’acqua copiosa. Questo fiume è Ester che il re ha sposata e costituita regina. I due draghi siamo io e Amàn. Sì, il Signore ha salvato il suo popolo, ci ha liberato da tutti questi mali e Dio ha operato segni e prodigi grandi quali mai erano avvenuti tra le nazioni. Dio si è allora ricordato del suo popolo e ha reso giustizia alla sua eredità. Questi giorni del mese di Adàr, il quattordici e il quindici del mese, saranno celebrati con adunanza, gioia e letizia davanti a Dio, di generazione in generazione per sempre nel suo popolo Israele” (Est 10,3).
Ed iniziamo questa celebrazione. Sono presenti la mamma ed il fratello del bambino che hanno ucciso il mese scorso nella miniera. Come non parlare di questo avvenimento, di fronte a questa Parola?! Tu sai che cosa ho detto. Neppure io in questo momento so, neppure io posso dire come stia la mia fede davanti a tutto questo. Ma Tu sei lì, in un modo o nell’altro presente, e porti avanti il peso degli eventi e la nostra storia. Certamente alla fine dell’Eucarestia chi é stato evangelizzato sempre, sono io, chi ha ricevuto la buona notizia della tua presenza, della tua salvezza e della pienezza di vita che solo ci porti, sono sempre io. Perché la partecipazione della gente è così viva, così forte, così intensa e piena di fede che mi aiuta a scoprire – aldilà delle apparenze – la vita che vince la morte, la tua vittoria sul male. Una Messa vissuta tra lacrime, con tinte anche tristi, ma allo stesso tempo piena di vita e di gioia. Davvero sei un mistero insondabile! Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto…. “Rialzaci, Signore, Dio degli eserciti, fa splendere il tuo volto e noi saremo salvi (Sal 80,20)”.
Ed il tuo volto Signore me l’hai manifestato oggi nel volto rugoso di Rosalia, negli occhi lacrimanti della mamma di Josè Luis – il ragazzo ucciso – nei singhiozzi del fratello, nel sorriso di quella bambina che si avvicina e mi prende per mano, vedendo la mia tristezza. Ed in quel bacio soave che mi dà sulle labbra uno dei bambini più piccoli e che ripete, perché gli piace questa sensazione di tenerezza e di vicinanza. Il tuo volto Signore io cerco, non nascondermi il tuo volto! Il tuo volto nel volto speranzoso di Romualdo che mi consegna la ricetta dell’ospedale con la lista delle medicine, che cercherò di portargli tra due mesi, nel corso della prossima visita. Il tuo volto in quello aperto di Bernardo che, dopo la Messa, mi parla di suo figlio quattordicenne, che sta studiano lontano e che vorrebbe tornare perché già non resiste alla fame là dov’è, impegnato in un progetto, che io aiuto ad elaborare, perché alcuni ragazzi della comunità possano continuare gli studi. Il tuo volto in quello sfigurato del figlio di Rosalia, che da più di quindici anni è immobile a causa dell’epilessia, anche questa non curata, ma quando saluto per andarmene, questo volto, che sempre è inespressivo, si illumina nello sforzo di un sorriso mentre lui alza la mano. Il mio cuore si sente profondamente turbato, “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore (Gv 14,27)”.
Sì, io ti ho incontrato. “Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ed essi si dissero l’un l’altro: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino? (Lc 24,31)”. Ti ho incontrato nell’oscurità del fiume. Ti ho incontrato nella gioia esultante della gente che stava aspettando sulla riva del fiume il nostro arrivo. Ti ho incontrato in questi dialoghi durate ore, ti ho incontrato nella celebrazione e nella condivisione che è seguita. Ti ho incontrato nella pioggia che è iniziata poco dopo e che credo ci farà compagnia a lungo. Sono sdraiato ora sul fondo della canoa, per riposare un po’ la schiena. In fondo all’orizzonte grandi lampi rischiarano in continuazione la notte ed il rombo dei tuoni ci scuote. Sulle mie labbra ancora la dolcezza dei baci di quel bambino, nel mio corpo, sulla mia pelle, ancora il calore di tanti abbracci ricevuti e scambiati, strette di mano, sorrisi, sguardi dritti negli occhi. Grazie Signore, anche nel mezzo della notte ho incontrato il tuo volto. Signore come ti amo! Signore come ti sento! E sento il tuo amore dentro di me! Cullato dal movimento della canoa mi sento come tra le tue braccia …..
A metà del ritorno ci siamo fermati presso una comunità che per differenti ragioni non avevamo mai visitato. Si chiama la Cucharilla. E’ abitata da indios Pemon e Karina, mescolati tra di loro. Una delle ragioni per cui non mi ero mai fermato prima è che la comunità è formata da soli avventisti, ed avevo il timore di mancare loro di rispetto. Quanta allegria nel riceverci e che feste! Tutti sono venuti per presentarsi, per dire i loro nomi, per stringere le mani. Alla fine i bambini ci hanno cantato una canzone: “I bambini sono i gioielli di Gesù”, questi i versi della canzone. Grazie per questi gioielli che condividi con me, che condividi con noi ogni giorno. I poveri sono i gioielli di Gesù, gli emarginati sono i gioielli di Gesù, gli indios sono i gioielli di Gesù. Ancora una volta Signore, un altro giorno che passa, ancora ti ho cercato e Tu ti sei lasciato trovare. Volto di uomo, di donna, di giovane, di bambino. Volto che sorride, volto che soffre, volto che cerca, che ama e chiede amore. Ancora una volta la notte ricopre con la sua oscurità la mia vita, ma io so che domani sorgerà il sole e con speranza e grande gioia io attendo fiducioso l’aurora. “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora (Sal 130,6)”.
E ricordo i canti melodiosi degli indios. “Masapüra tukarö uyun maimu akamapök mainük mörö – uyakon uparuchi usan taure Jesus da – Etaunchipadaik apök rökö yepuru Jesús (Chi annuncia la parola di mio Padre – é mio fratello, mia sorella e mia madre, dice Gesú – Sono felice in te, Signore Gesú). La città appare ora in lontananza con le sue luci. Là ci aspetta il progresso…. La complicazione, la corruzione, la rivalità, tutto quanto di negativo l’uomo ha costruito, chiamandolo civiltà. Ma noi arriviamo con la certezza nel nostro cuore che nasce dall’aver visto il tuo volto. Anche nella città ci sei Tu. “Egli però disse: Bisogna che io annunzi il regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato (Lc 4,43)”.
E lì ci rivedremo.
Le seduzioni del mondo. Confuso e contraddittorio messaggero che mi sei stato all’improvviso mandato, hai parlato con parole oscure che – hai detto – dovevano ferire e far sanguinare, per il mio vero bene. Non potevi dirmene la provenienza. Chi sei tu e chi servi, davvero? Riportarmi sulla retta via, che avrei smarrito, allontanarmi dal demonio, che usa le migliori intelligenze, asservendole. Questo il compito che ti è stato affidato. La mia colpa? Avere impegni “ideali” e non voler “crescere”. Non “fare”, non essere tra i costruttori di opere, mentre Cristo – a loro dire – lo sarebbe stato (?!) Ma il “peccato” maggiore da me commesso consisterebbe nell’aver preso troppo alla lettera il Vangelo, mentre la Parola andrebbe invece correttamente “interpretata”. Come ha detto recentemente un amico Vescovo missionario, guardando alla nostra realtà, è lecito pensare che noi si sia “tentati” dal legittimare le nostre strutture economiche e di potere, imponenti e diffuse, cercando evangelici supporti, che francamente non esistono se non in forzosi e compiacenti stravolgimenti, altro che adattamenti!
E’ la chiesa costantiniana che ancora regge, nelle sue strutture di potere e controllo, nonostante la santa benedizione del crollo di un’adesione istituzionalizzata e quasi statale e del conseguente doversi scrollare di dosso paludamenti ed infingimenti. Eppure sono ancora presenti, e nelle posizioni che contano, i “cattocapitalisti” (certo più contraddittori e pericolosi di altri “catto”) che rimpiangono modelli vicini al “sacro romano impero” e che si turbano alle giuste richieste di scusa pronunciate dal Papa rileggendo quei tempi. Solitamente è gente ricca, molto ricca, e colta, di quella cultura che un santo gesuita ha definito essere perfino l’aggravante delle loro colpe. Meglio sarebbe infatti stato per loro il non aver approfondito la fede cristiana che il dire d’averlo fatto per poi volgerla a loro favore e sostegno.
Hanno adottato il Messaggero, e lo scudo che ancora rappresenta, ma ne hanno rifiutato il messaggio e le sue conseguenze.
Ed insistono in una visione di Chiesa come “club per soli soci”, vantandosi di essere dei moderati in ogni ambito della vita sociale.
Sono proprio i moderati il pericolo maggiore lungo la strada del nuovo mondo e dell’affermazione della giustizia: sono quegli stessi moderati – e brave persone – che hanno condannato a morte Cristo e sono pronte a fare altrettanto, in ogni tempo, contro chi turba l’esistente e facendolo tocca i loro interessi, per primi quelli economici.
E’ il sopravvivere del colonialismo religioso, della Chiesa temporale retaggio di un passato che non vuole tramontare, e del quale non è più sufficiente limitarsi a chiedere perdono, in questi anni di rilancio dell’evangelizzazione. E’ figlio, soprattutto, di chi detiene e gestisce il potere economico all’interno delle strutture della fede, in maniera a dir poco contraddittoria. Sempre il fedele Vescovo missionario annotava quanto sarebbe stato preferibile cambiare un recente slogan della Conferenza episcopale italiana da “Annunciare il Vangelo in un mondo che cambia” a “Cambiare il mondo con l’annuncio del Vangelo”. E non si tratterebbe di dare corpo all’utopia cristiana, ma di fedeltà al mandato di Cristo. Chi è “cresciuto”, perdendo inevitabilmente entusiasmo e fiducia, è evidentemente convinto che il mondo reale sia altro e sia immodificabile rispetto all’annuncio di Cristo, che va quindi adattato e “tradotto”, riducendolo a filosofia di vita.
E’ un cristianesimo ridotto a filosofia che si traduce in ricerca di tranquillizzante acquiescenza rispetto all’esistente, di salvaguardia e custodia delle opere realizzate, di occupazione di spazi e detenzione di potere reale, economico e di copertura politica, nel nome di valori resi sterili quali il pretesto della preoccupazione dell’“educazione giovanile”, finalizzata in concreto al mantenimento delle strutture di studio, a “progetti di cooperazione internazionale”, realizzati usufruendo dei contributi europei e di quelli dei governi locali, e di finanza sociale, seguita con preoccupazione, nel caso riprenda vigore e significato. Il tutto accompagnato da una sorta di “tantra” quotidiano: una recita – rituale e meccanica – dal significato auto-assolutorio e priva di viscerale turbamento, delle salmodie e dello stesso Vangelo, volta ad imbellettare e “santificare” i bilanci e le gestioni correnti di mercato. Avevo iniziato bene – mi hai detto – poi mi sono perso, fino a diventare inutile e deriso. Detto da te mi risulta una nota di merito. Di certo sei il portavoce di un potere che si vuole conservare e che, temendo di essere minacciato, si difende attaccando senza remore.
Ma non salvaguarda virtù, che si sostengono per il loro stesso valore, ma piuttosto privilegi e strutture, costruite nel tempo.
Logiche umane, ma non certo cristiane.
Sia chiaro non giudichiamo i singoli, non se ne ha la possibilità e nemmeno l’interesse a farlo, ciò che va però evidenziato, con una fedele cronaca ed una dolorosa testimonianza, è il frutto, il risultato, le azioni così come si manifestano.
La loro legittimità, la “complessità strutturale” da cui derivano, le reali finalità cui tendono e sottendono, non sono per noi oggetto di analisi, che sarebbe inevitabilmente parziale.
Crediamo però fermamente che, mentre un tempo contava maggiormente il fine, passando in second’ordine il modo con cui vi si giungeva, ora che l’etica deve sempre più divenire stile di vita e distinzione di comportamenti lungo la via della civiltà dell’uomo non solo il “prodotto” ci preoccupa, ma soprattutto come ed a quali “costi” agiamo per ottenerlo.
Alessandro Piergentili
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